La magia è per chi la fa
Così recita una meravigliosa poesia degli indiani d'America, attribuita a una donna della tribù Oriah, vissuta alla fine dell'800 :
"Non mi interessa cosa fai per vivere, voglio sapere per cosa sospiri
e se rischi il tutto per trovare i sogni del tuo cuore.
Non mi interessa quanti anni hai, voglio sapere se ancora vuoi rischiare
di sembrare stupido per l'amore, per i sogni, per l'avventura di essere vivo.
Non voglio sapere che pianeti minacciano la tua luna, voglio sapere se hai toccato
il centro del tuo dolore, se sei rimasto aperto dopo i tradimenti della vita
o se ti sei rinchiuso per paura del dolore futuro.
Voglio sapere se puoi sederti con il dolore, il mio o il tuo;
se puoi ballare pazzamente e lasciare l'estasi riempirti fino
alla punta delle dita senza prevenirti di cautela, di essere realisti,
o di ricordarci le limitazioni degli esseri umani.
Non voglio sapere se la storia che mi stai raccontando sia vera.
Voglio sapere se sei capace di deludere un altro per essere autentico a te stesso,
se puoi subire l'accusa di un tradimento e non tradire la tua anima.
Voglio sapere se sei fedele e quindi hai fiducia.
Voglio sapere se sai vedere la bellezza anche quando non è bella tutti i giorni.
Se sei capace di far sorgere la tua vita con la tua sola presenza.
Voglio sapere se puoi vivere con il fracasso, tuo o mio e continuare a gridare
all'argento di una luna piena: SI!
Non mi interessa sapere dove abiti o quanti soldi hai,
mi interessa se ti puoi alzare dopo una notte di dolore, triste o spaccato in due,
e fare quel che si deve fare per i bambini.
Non mi interessa chi sei, o come hai fatto per arrivare qui,
voglio sapere se sapresti restare in mezzo al fuoco con me e non retrocedere.
Non voglio sapere cosa hai studiato, o con chi o dove,
voglio sapere cosa ti sostiene dentro, quando tutto il resto non l'ha fatto.
Voglio sapere se sai stare da solo con te stesso,
e se veramente ti piace la compagnia che hai , nei momenti vuoti".
Ricordatevi di questi versi quando vedrete l'ultimo, poco acclamato film di Gianni Amelio, "L'intrepido", presentato (e piuttosto fischiato) a Venezia nel 2013.
I fischi, però, sono tutti da discutere. O meglio, da discutere se abbiamo la fortuna di aver salvaguardato dentro di noi un po' di sogni e proiezioni pre-crisi cosmico sociale e se riusciamo a fregarcene dello sguardo di sufficienza dei nostri/mostri amici post esistenzialisti della domenica all'aperitivo bio-vegan.
Se invece assomigliamo, nostro doloroso malgrado, ai giovani coprotagonisti del film, smarriti, abbandonati, post-hopperiani, allora possiamo metterci in coda e fischiare pure noi, (per poi sentirci ancora peggio dopo eh, sai che affare).
Questo è un film coraggiosamente démodé, apertamente naïf, che racconta della lotta quotidiana di un uomo che non accetta di rassegnarsi alla sconforto di una disoccupazione forzata alla soglia dei cinquant'anni e che si inventa nel ruolo del "rimpiazzo", di qualsiasi lavoro gli si proponga, senza preoccuparsi di altra dignità che non sia quella propriamente etica di una "persona per bene".
"Io voglio farmi la barba tutte le mattine". Eccolo Antonio, che spiega perché accetta di tirare avanti così, adamantino e limpido, se dovessimo sintetizzarlo in una figurina da album sgualcito, mentre ci fa un occhiolino degno di Charlot.
Un uomo timido, colto, candidamente beato dall'avere un figlio "artista", disposto a qualsiasi sacrificio per non rovinare i suoi sogni, anche, anzi, soprattutto, se i suoi la vita se li e' divorati.
Facile (speriamo lo sia, almeno...) immedesimarsi nel genitore che farebbe di tutto pur di mantenere intatte e fulgide le speranze dei figli, che quasi si sente sollevato nello svolgere attività faticose e a volte poco gratificanti, come se per magia accettando questo duro destino si potesse risparmiare automaticamente una sorte del genere ai propri teneri virgulti.
Ma la magia, si sa, spesso esiste solo per chi la fa.
Quella che a chi fatica per arrivare a fine mese può sembrare una dimensione fatata, può invece essere un inferno di inadeguatezza per chi dei propri privilegi ha fatto zavorra e non ali.
Insomma, per dirla volgarmente, spesso chi ha il pane non ha i denti, soprattutto in epoche di incerti passaggi come quella che stiamo vivendo. A volte avere un sogno, una proiezione della bellezza e della felicità, tiene più vivi del viverli. Può apparire assurdo, eppure basta guardarsi intorno e scrutare negli occhi dei ragazzi delle nostre vite.
Antonio, disoccupato, povero, abbandonato dalla moglie che "a volte vedo da lontano, ma non so se è lei", saltellante da una cella frigorifera a una cassa da morto per permettersi di offrire una colazione al bar ad una ragazza senza fiducia nel futuro, è decisamente più centrato e possibilista di suo figlio, il sassofonista raffinato dei suoi sogni.
E sarà lui a salvarlo, mentre sta per rinunciare alla sua musica, con la grazia ed il garbo di un padre che forse non capisce molto, ma sente, tutto. E che fa, perché non ha dubbi che nel fare, al meglio delle proprie possibilità, sia l'unica via.
Questo coraggioso film di Amelio mette nel sorriso del grande Antonio Albanese un messaggio chiaro e diretto e, anche per questo, terribilmente fuori moda: non mollare mai.
Nonostante i parallelismi con un certo cinema di Capra e di Chaplin siano quasi automatici, la citazione del testo indiano qui sopra non è dunque casuale, mentre ci riporta alle radici della nostra forza antica e primordiale, da ritrovare nelle notti senza luna e con i lupi alle calcagna per gridare il nostro urlo d'amore, a tutta la vita che possiamo.