L'amore di Carmelo Bene per Joyce
Nell'immenso bagaglio culturale di Carmelo Bene la letteratura occupava un posto molto importante. Lettore voracissimo (quando morì nelle sue case erano stipati migliaia e migliaia di libri), Bene possedeva una cultura letteraria assai variegata e trasversale, nella quale i Grandi Classici venivano affiancati - e a volte addirittura superati - da opere di scrittori cosiddetti "minori".
Il libro che più lo colpì, il libro che gli cambiò la vita in modo radicale, fu Ulisse di James Joyce, che Bene definì “L'incontro letterario e forse anche non letterario decisamente più importante della mia vita”. Per Carmelo Bene Ulisse rappresentava l'unica opera letteraria in cui il pensiero dell'autore è riportato sulla pagina in modo totalmente immediato, senza essere filtrato e "riferito" attraverso mediazioni concettuali e stilistiche di vario tipo; solo in Ulisse il pensiero del "di dentro" coincide davvero con il pensiero del "di fuori", e ciò ne fa una vetta assoluta della letteratura mondiale (“Nessun'altra opera gli è pari”).
A proposito del rapporto tra Bene e il capolavoro joyciano, qualche anno fa su La Repubblica Beniamino Placido scrisse che il Carmelo Bene della prima fase della sua esperienza teatrale, la fase delle cosiddette "cantine" romane, poteva essere considerato un imitatore (non in senso negativo) proprio del Joyce dell'Ulisse, perché secondo Placido “Quel Carmelo Bene prima maniera: quello che recitava nelle cantine; e sui palcoscenici delle cantine romane rimescolava i personaggi di Pinocchio con quelli del libro Cuore, seguendo il filo delle sue libere, irresistibili associazioni, sconvolgendo il nostro orizzonte di attesa, veniva fuori evidentemente da Joyce.
Quel Carmelo Bene che alternava pratiche basse e pratiche alte, il linguaggio letterario più raffinato e il linguaggio stravaccato dei nostri irriferibili monologhi interiori; che quando appariva Mefistofele, preceduto da un filino di fumo, intonava: Un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo, veniva fuori dal Leopold Bloom di Joyce. E dalle sue libere, imprevedibili, associazioni”.
Un altro scrittore al quale Bene era molto legato era Franz Kafka, che a suo giudizio fu un grande scrittore comico. Ovviamente, quando si riferiva a Kafka usando la parola "comico", Bene non intendeva "comico" nel senso di qualcosa o qualcuno che vuole provocare la risata in chi ascolta o legge, per Bene “comico è tutto l'opposto. Quanto di più asociale e libertino si possa concepire, se mai fosse concepibile [...] Il comico è cianuro.
Si libera nel corpo del tragico, lo cadaverizza e lo sfinisce in un ghigno sospeso [...] Il comico che mi interessa è cattiveria pura, lama gelida e affilata che trafigge i ben decorati presepi. Ai funerali ti scappa da ridere e questa è la vera tragedia. Le disgrazie altrui ti mettono sempre di buonumore, diventano caricatura un secondo dopo. Fare anche della propria disgrazia una spassosa e deforme caricatura, questo è il comico che si sposa al sublime”. E secondo Carmelo Bene - che negli ultimi anni della sua vita avrebbe voluto scrivere un saggio proprio sull'importanza del comico in Kafka, senza purtroppo esserci riuscito - l'opera kafkiana abbonda di questo comico, di questo “riso malato”.
E oltre a Joyce e Kafka? Oltre a loro ce n'erano molti altri, a cominciare da tutti quelli che hanno avuto un ruolo di primo piano nella produzione artistica di Bene (il francese Jules Laforgue che tanta influenza ebbe su quasi tutti gli Amleti carmelobeniani, Shakespeare, Oscar Wilde, i grandi poeti russi come Majakovskij e Aleksandr Blok, ecc.), per poi passare ad altri nomi altisonanti (come quelli di Emile Zola, Francis Scott Fitzgerald ed Emily Bronte) e ad altri ancora, meno conosciuti ma non per questo meno degni di attenzione, come il franco-tedesco Adalbert von Chamisso (1781-1838), i francesi Gérard de Nerval(1808-1855) e Auguste de Villiers de L'Isle-Adam (1838-1889) e il portoghese José Maria Eça de Queiròs (1845-1900), che Bene considerava il suo romanziere preferito.
E gli italiani? Ovviamente Bene solcò pure il Mare Magnum della letteratura nostrana, dal Medioevo fino ai grandi del Novecento, con esiti anche "sorprendenti": quando Giancarlo Dotto gli chiese quale fosse il suo scrittore italiano preferito in assoluto, Bene dribblò i "pesi massimi" e fece il nome di Matteo Bandello, il frate domenicano vissuto a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento che lasciò ai posteri una raccolta di Novelle che ispirarono grandi scrittori a lui successivi come Félix Lope de Vega e Shakespeare (il Bardo prese spunto per scrivere Romeo e Giulietta proprio da una novella di Bandello). Altri scrittori italiani che Bene amava molto erano Dino Campana (a parer suo il più grande tra i nostri poeti, più grande di Dante e Leopardi), Tommaso Landolfi, Manzoni (la sua Storia della colonna infame è secondo Bene “forse il più grande libro di tutta la letteratura italiana d'ogni tempo”), Elsa Morante (Bene definì La serata a Colono “vertice della poesia italiana del Novecento”) e anche Carlo Collodi, il cui Pinocchio ricordava a Bene l'amatissimo Joyce (in un'intervista rilasciata al quotidiano Momento Sera nel 1966 affermò che secondo lui in Pinocchio “c'è una rivoluzionaria avventura del linguaggio, creata dalla perdita della sintassi. In certi punti sembra di sentire Joyce in anteprima”).