L'amore disperato di Cioran

Pietro Iannibelli

Cioran, lo spirito più acre e disingannato dei tempi moderni, una sorta di esiliato sulla terra, nei primi mesi del 1981, già settantenne, ricevette una lettera da un’insegnante di Colonia, Friedgard Thoma, la quale, oltre a essere bella e colta, aveva la metà dei suoi anni. Commise l’imprudenza di risponderle. Solo qualche settimana dopo, in aprile, i due si videro a Parigi, la città in cui Cioran viveva. Egli, come convenuto, andò a prenderla in albergo: la condusse a fare una lunga passeggiata, a visitare il Carnavalet, la sera le preparò una cena frugale nella sua angusta mansarda (Simone Bouè, l’intelligente donna con cui Cioran condivideva la vita da quarant’anni, era fuori città), quindi, galantemente, la riaccompagnò in albergo. Da quel giorno, per un periodo indefinito, il pensatore rumeno non fu più padrone dei propri pensieri, la sua attività mentale, suo malgrado, si trasformò in un’ininterrotta e ossessiva ruminazione sulla donna, si potrebbe dire che se ne innamorò, se questa generica espressione non fosse del tutto inadatta ad illustrare il baratro psichico in cui Cioran gradualmente precipitò. Lui, un lunatico insonne dal cuore chiuso e refrattario, compagno ormai, a suo dire, soltanto della stanchezza, si ritrovò da un giorno all’altro vittima degli irrazionali furori della passione, fra i quali brancolò a lungo prima di trovare la pace nella rassegnazione. Viene da chiedersi come un uomo della sua tempra e della sua elevatezza intellettuale, che quotidianamente conversava di astrusità con Eliade, Ionesco, Beckett, si sia potuto lasciare istupidire da una qualsiasi Friedgard, benché avesse occhi incantevoli… Ma è soltanto un interrogativo retorico, poiché gli istinti non invecchiano e sfuggono ad ogni età alla sovranità della ragione, inoltre, come afferma Al Ghazali: «Le chiavi dei cuori sono nelle mani di Dio; Egli li apre quando vuole, come vuole, con ciò che vuole».

Il fatto è che nelle citate giornate parigine, non pago della sorprendente affinità spirituale sussistente tra lui e Friedgard, Cioran sarebbe voluto passare senza procrastinazioni ad una forma di conoscenza anche sensuale, includendo spensieratamente la dimensione fisica nel cerchio magico della loro armonia. Desiderio che Friedgard non appagò. Un paio di giorni dopo il ritorno della donna a Colonia, Cioran le scrisse: «Ho pensato a tutto quello che sarebbe potuto essere giovedì sera… se non avesse opposto resistenza. […] Credo (forse mi sbaglio) che stamattina sarei meno ossessionato, se Lei fosse stata più buonacon me [il corsivo è di Cioran]», parole con cui in sostanza esprime il suo rammarico per il fatto che la loro amicizia non avesse fatto ricorso anche al linguaggio dei corpi per consacrarsi. Sorprende, non c’è che dire, il violento e repentino risveglio degli impulsi fisiologici in un ipoteticamente placido settantenne e, se non si corresse il rischio di incorrere nell’accusa di perbenismo, sorprenderebbe anche la disinvoltura con cui il medesimo settantenne problematizza la delicata questione del dare e dell’avere venale nelle lettere indirizzate a una donna, benché teutonica. Dinanzi alle rimostranze di Cioran, Friedgard si mostrò possibilista: «La prego di considerarmi tuttavia come la persona che l’ama, qualunque cosa si intenda; quella che ha bisogno di più tempo (ci siamo visti solo un pomeriggio e due sere), più lenta e ponderata quando si tratta di infrangere certe soglie». A causa del rifiuto oppostogli prima e della remota possibilità di cedimento accordatagli poi, insieme all’insopportabile pensiero che Friedgard a Colonia avesse un fidanzato e al fatto che la sua già divorante passione non poteva estrinsecarsi se non per mezzo di algide lettere e telefonate, peraltro clandestine, tutto il travolgente trasporto che Cioran sentiva nei confronti della donna dovette necessariamente deviare dal suo corso naturale, traviarsi e trasformarsi lentamente in quella trascendente malattia dell’anima che le letterature del mondo hanno circonfuso di spavento e che gli uomini menzionano con tremante soggezione, la “disperazione d’amore”, lo stesso morbo da cui furono sfigurati per sempre Petrarca e Majnun.

Come detto, la loro relazione continuò a sussistere per mezzo di telefonate quotidiane e frequenti lettere. In queste, come se in passato avesse accumulato una riserva di amore e possessività pronta a innescarsi, Cioran si mostrava sempre più afflitto e geloso (Friedgard frequentava un certo Walter, cosa che acutizzava all’eccesso il suo tormento). In una di esse le scrisse che, di notte, durante le infernali ore di insonnia, invece di pensare soltanto al suicidio come solitamente faceva, ora pensava al suicidio e a lei, Friedgard, e quest’ultimo era il pensiero più torturante. Definiva la lontananza che li separava come una catastrofe naturale… cosa apparentemente singolare se si considera il fatto che erano passati soltanto quindici giorni da quando per la prima volta si erano visti. Tuttavia, per una mente che pensa incessantemente un unico pensiero in tutte le frammentazioni dell’istante, anche un solo giorno può costituire un’eternità, l’incommensurabile infatti alberga in ciò che è piccolo come in ciò che è grande… molto saggiamente, quando Alice chiese al Bianconiglio che cosa significasse l’espressione “per sempre”, egli le rispose che, talvolta, poteva significare un solo secondo. Anche Friedgard del resto, a suo modo, partecipava della pena di cui Cioran si struggeva: «Per favore, non mi telefoni troppo raramente – la sola prospettiva mi ha spaventata: il telefono è l’unico mezzo per attenuare la “catastrofe naturale” nella quale sono coinvolta insieme a Lei […]. Non avverte anche Lei a quale decisiva “prova straziante” siamo ora sottoposti a causa della distanza spaziale…». Era tempo di rivedersi.

Ai primi di maggio Cioran partì alla volta di Colonia e per qualche giorno fu ospite di Friedgard. Nel corso di questo secondo incontro tra loro dovette presumibilmente accadere qualcosa di tangibile sul piano intimo, poiché Cioran in una sua lettera successiva relativa al tempo trascorso insieme parlò di “Paradiso” e di “sospiri”, mentre Friedgard, rispondendogli, gli scrisse: «Lei mi ha trascinato nell’immediatezza inequivocabile di una relazione fisica, mentre io cercavo l’erotica ambiguità di una relazione “intellettuale”. […] quando Lei sarà qui, le dirò: “Non mi venga troppo vicino per favore”». Si potrebbe cavillare a lungo sull’effettivo senso di queste parole, ma è una questione che nei suoi particolari intrinseci riguarda esclusivamente Cioran e Friedgard, su cui l’eleganza impone di sorvolare. Ciò che importa è che dopo questo incontro Friedgard parve chiarire a sé stessa, e a Cioran, l’impossibilità di un amore fisico nel vicendevole scambio umano che costituiva la loro inusuale relazione. Quel che accadde (o che non accadde, «Nulla si sa, tutto si immagina» recita un verso di Pessoa), indusse Friedgard ad esaminare con distacco i nebulosi sentimenti che la legavano a Cioran e a capire che lui, benché fosse Cioran, era né più né meno che un vecchio, al quale si sentiva unita soltanto da vincoli di natura intellettuale e, in senso ampio, affettiva. Fu un supplizio per Cioran prendere atto della nuova consapevolezza di Friedgard e accettare il fatto di non poter (non poter più?), come Tantalo, placare la propria sete e la propria fame nonostante l’acqua e le mele si trovassero a poca distanza dalla sua bocca. La sua disperazione si nutrì del ravvedimento di Friedgard e si ingigantì. Si scoprì vulnerabile: «Ho osato considerarmi più distaccato del Buddha, ed ora vengo punito per le mie illusioni. Ho recitato troppo a lungo la commedia della saggezza». Piangeva e, come tutti gli infelici, voleva piangere: «Ricorda la passeggiata sulla strettoia lungo la riva del lago? A causa del gelo stamattina non c’era quasi nessuno. Solo io, con le mie lacrime. Non ne ho mai versate così tante in vita mia, senza la possibilità di riderci sopra. […] Lei è diventata talmente importante per me che mi chiedo comeil nostro incontro finirà. Vorrei rifugiarmi con Lei su un’isola deserta, e piangere tutto il giorno. […] Come avrei potuto immaginare di soffrire così tanto per causa sua?» In giugno i due si videro di nuovo a Parigi. Cioran si comportò in modo molto possessivo con Friedgard, da buon balcanico era infastidito dal fatto che nelle occasioni di convivialità si dilungasse a conversare con i suoi (di Cioran) amici, ma nel corso delle loro passeggiate, quando poteva, le prendeva dolcemente la mano. La voleva solo per sé.

Il vero spartiacque nella loro ambigua relazione è rappresentato dalle vacanze estive, che Cioran e la sua compagna di vita, Simone, trascorsero con Friedgard e alcuni suoi amici in un piccolo paese svizzero sul confine lombardo, Soglio, nei pressi dell’Engadina e di Silvaplana, il luogo nel quale cento anni prima Nietzsche concepì l’inquietante teoria dell’eterno ritorno dell’eguale. In quell’occasione Friedgard conobbe personalmente Simone e con lei strinse un rapporto di sincera benevolenza. Questa novità contribuì a mutare radicalmente le cose tra lei e Cioran, le quali erano del resto già avviate verso un cambiamento decisivo. Dopo Soglio l’atteggiamento di Friedgard nei confronti di Cioran si trasformò, quasi, in affetto filiale e lei cominciò a rapportarsi a lui e a Simone come se fosse un’amica di famiglia, ciò che poi in effetti divenne. Ma la disperazione di Cioran alla luce di questo mutamento definitivo non si attutì, anzi raggiunse la sua acme… «L’uomo nasce per soffrire come le faville per volare in alto», afferma con ragione un personaggio di Somerset Maugham. Le lettere dell’estate/autunno 1981 sono le più colme di lacerazione e dolore e mostrano un Cioran consumato dal sentimento della privazione. Le scrisse: «Adesso trovo [la vita] assolutamente assurda – senza di Lei», le scrisse: «Sono uscito proprio adesso. Qualche minuto dopo sono dovuto rientrare: ogni respiro, una pugnalata. Nelle persone anziane questo morbo infantile è un inferno», poi le scrisse: «Come spiegare altrimenti che io – malgrado così tante delusioni – sia rimasto Suo schiavo?». Ancora nel giugno del 1982, più di un anno dopo il loro primo incontro parigino, le scrisse: «Il corso sotterraneo dei sentimenti! Si crede di essersene liberati, mentre continuano a vivere in segreto, avanzano perfino, in modo quasi indipendente da noi». Ma il tempo passò e la rassegnazione lentamente si introdusse nei suoi tristi pensieri, inducendolo, volente o nolente, a conformare il proprio sentire all’amara realtà delle cose. 

Cioran pubblicherà nel 1986 gli “Esercizi di ammirazione”, opera che finalmente gli regalerà quella fama che tutte le smaglianti opere precedenti non gli avevano dato. Farà frequenti viaggi con Simone, rilascerà, riluttando, interviste, vivrà la meritata gloria con eleganza e disincanto. Poi, nel 1993, l’uomo che aveva fatto della lucidità la sua tremenda luce, perderà il senno: si spegnerà due anni dopo, a ottantaquattro anni, assente a se stesso. Friedgard, con visite sporadiche e cartoline, farà sentire la sua vicinanza a lui e Simone fino alla fine. Le lettere che testimoniano della loro relazione sono state rese note da Friedgard stessa con la pubblicazione del libro “Per nulla al mondo. Un amore di Cioran”, meritoriamente riedito in Italia qualche anno fa dalla casa editrice La scuola di Pitagora. Esso getta una luce nuova sullo scrittore senza speranza, traboccante di poesia e ironia, che è stato Cioran, e rivela il lato indifeso di un uomo estremo, eccezionale, che con la sua passione senile ha dato ancor più credito alla meravigliosa verità secondo cui l’amore, al cor gentile, ratto s’apprende.

 

 

27-01-2020 | 00:07