L'amore durante la catastrofe
Nelle numerose pagine di Vita e destino, opera somma del Novecento mondiale, Vasilij Grossman rappresenta nitidamente, come se fosse una montagna maestosa che arriva a toccare il cielo, la predisposizione umana al dolore. Senza sentimentalismi o svenevolezze retoriche, lo scrittore sovietico mette al centro della sua ramificatissima narrazione l’essere umano alle prese con la catastrofe e lo ritrae disarmato nell’atto di far fronte ad una realtà incomprensibile che, con le fattezze della guerra, della dittatura, del lager, vuole umiliarlo, schiacciarlo, annichilirlo. L’immagine abusata dell’albero che nell’infuriare degli elementi si contorce, flette e deforma sino al limite della sua elasticità, esemplificherebbe alla perfezione il nucleo di questa grande opera tragica, se non fosse per il fatto che l’albero spesso rimane integro ed eretto una volta ristabilitasi la quiete, l’uomo invece, dimostra la storia e scrive Grossman, no. Nel romanzo, una moltitudine di personaggi dalle vite direttamente o indirettamente intrecciate vive sotto la cappa plumbea dell’angoscia, della paura, della miseria, e vede ogni giorno realizzarsi l’atavico incubo della violenza istituzionalizzata, del sopruso autorizzato, della brutalità permessa e giustificata. Essi si ritrovano a subire la terribile ondata di distruzione, privazioni e miseria che l’invasione tedesca del giugno del ’41 determinò nelle regioni occidentali dell’URSS. In particolare, i fatti descritti nell’opera si svolgono nei mesi dell’assedio di Stalingrado, avvenuto tra l’estate del ’42 e l’inverno del ’43, l’immane scontro che decise le sorti del secondo conflitto mondiale e che, com’è noto, dopo una strenua resistenza sovietica, vide i tedeschi soccombere. Fra i personaggi che la penna di Grossman segue con più delicatezza e umanità nel vasto scenario sovvertito dalla guerra, ve ne sono due la cui vicenda personale, per singolarità e struggente bellezza, desta uno speciale coinvolgimento. Si tratta di Nikolaj Grigor’evič Krymov e Evgenija Nikolaevna Šapošnikova, un tempo, in un passato indeterminato, marito e moglie.
Krymov, commissario dell’Armata Rossa e convinto bolscevico – al punto da difendere gli orrori della dekulakizzazione e delle purghe del ’37 anche in privato con gli intimi – appare per la prima volta nel romanzo tra i bunker di Stalingrado. Essendo stato incaricato di dirimere uno screzio sorto tra due ufficiali, si trovò inaspettatamente coinvolto, insieme a un manipolo di militari, in uno scontro a fuoco notturno con i tedeschi. All’alba, intontito e stanco, udendo la toccante melodia prodotta da un violino improvvisato suonato dal barbiere del reggimento, lì, tra boati, macerie e ferri ritorti, si sorprese a riflettere sulla sua condizione di uomo. Scrive Grossman: «E di nuovo, per l’ennesima volta, Krymov provò il dolore della solitudine. Ženja l’aveva lasciato… Di nuovo pensò con tristezza che quell’abbandono era il meccanismo consueto della sua vita: lui rimaneva, ma era come se non ci fosse. E lei se n’era andata». La musica penetrò nella sua arrendevolezza mattutina e gli dischiuse d’incanto gli spazi interiori, pervasi di smarrimento e sconforto. L’idea fissa della moglie che lo aveva abbandonato e il suo rovescio, ovvero la consapevolezza della propria inadeguatezza, inettitudine, inservibilità, gli si presentarono alla mente in tutta la loro spigolosa chiarezza. Nello sfacelo divenuto oggettività, tra soldati dall’ilarità chiassosa, Krymov si sentì fuori posto, vano, vecchio, e l’unica cosa che gli importava nella smisuratezza dello spazio si trovava deliberatamente lontana.
Ženja (diminutivo di Evgenija), era invece stata evacuata a Kujbyšev, l’odierna Samara. Costretta a vivere nella promiscuità di un appartamento di sfollati, sorte che condivideva con migliaia di suoi contemporanei, i quali con l’avanzare della Wehrmacht furono come lei trasferiti al sicuro nelle città dell’interno o lontane dal fronte, Ženja, che in un vago passato era stata la moglie di Krymov, intratteneva ora una relazione con Novikov, un giovane e promettente colonnello impegnato nelle operazioni di guerra. Si ritrovò sola a Kujbyšev, il resto della sua famiglia era stato evacuato a Kazan’, cosa che non le dispiaceva. La sua gradita solitudine era però esacerbata, oltre che dalle ristrettezze imposte dalla guerra, da un dilemma che rendeva ondivaghi i suoi soliloqui giornalieri. Si alternavano infatti nella sua mente flussi di pensieri contrastanti concernenti le due figure della sua vita sentimentale, Krymov e Novikov. La prima, sebbene avessero per sua volontà troncato i rapporti, si imponeva nel presente sotto forma di senso di colpa, rimorso, errore, con intensità maggiore via via che i giorni passavano; la seconda, Novikov, si affacciava invece alla sua mente come un’eventualità non troppo consistente, vuota, priva della sostanza che un amore degno di tale nome suole assumere nello spirito e nella ragione dell’amante. Scrive Grossman: «In quel periodo pensava poco a Novikov. Pensava di più a Krymov, ci pensava in continuazione o quasi, ma c’era poca luce in quei pensieri, poco calore. Il ricordo di Novikov si accendeva e si spegneva senza grandi struggimenti». Ženja era divisa, in sé, tra il passato, Krymov, verso il quale provava un sentimento irrisolto, e il futuro, Novikov, che la lasciava fredda. E benché a suo tempo avesse impietosamente abbandonato il marito alle sue tare umane, sentiva che nella relazione con lui qualcosa era rimasto in sospeso: «È davvero impossibile capire se stessi…, pensava. Perché il passato non mi dà requie, perché mi dispiace tanto per Krymov, perché non riesco a smettere di pensare a lui?», scrive Grossman.
A centinaia di chilometri di distanza, Krymov e Ženja continuavano dunque a tendere vicendevolmente l’uno all’altra. Non si trattava tuttavia di una reciprocità perfetta, perché i pensieri di Ženja erano originati dalla compassione, mentre i pensieri di Krymov dalla sua mancanza e dall’amara consapevolezza della propria inutilità, che ingigantiva la misura del vuoto. L’abbandono di Ženja era stato un ostacolo dinanzi al quale la sua vita si era bloccata senza riuscire a proseguire oltre. Anche tra le macerie di Stalingrado sotto assedio, entrando in un altoforno nel quale erano stati collocati i comandi dei reggimenti di stanza nella città, Krymov fu sorpreso dal pensiero di lei. Scrive Grossman: «In quella semioscurità polverosa e soffocante Krymov si scoprì a pensare che non avrebbe mai potuto raccontare a Evgenija Nikolaevna di averla pensata mentre si infilava in una tana-forno di Stalingrado. C’era stato un tempo in cui il suo unico desiderio era stato sbarazzarsi di lei, dimenticarla. Adesso invece si era rassegnato ad averla sempre con sé. Anche in quel forno era arrivata, non c’era modo di sfuggirle. […] La sua scelta di lasciarlo era stata la conferma, l’ennesimo riscontro, che non era buono a nulla in questa vita». E anche quando, per la semplice ragione che non si può sempre disperare, un improvviso ottimismo rispetto all’avvenire si effondeva nella sua anima, il ricordo della moglie glielo guastava. Scrive Grossman: «Nella luce tersa del giorno gli sembrava di vedere il suo futuro: sarebbe tornato a vivere delle risorse del suo cervello, della sua volontà, della sua passione di bolscevico. Si sentiva di nuovo giovane e sicuro, ma a quella sensazione si mescolava il dolore per la moglie, bellissima, che l’aveva abbandonato». In seguito, Krymov fu lievemente ferito alla testa da una pallottola vagante. Dopo una breve convalescenza, gli accadde di incontrare il marito di una delle sorelle di Ženja. Ebbe da lui sue notizie, seppe che si trovava forse a Kujbyšev, forse a Kazan’… che insomma era viva, era questa la cosa importante secondo il cognato, ma Krymov non se ne rallegrò. Scrive Grossman: «“Certamente, è questo che conta” disse Krymov. Il quale, però, non lo sapeva cosa contasse davvero. Una cosa, sapeva: quel dolore non passava. E sapeva anche che qualunque cosa avesse a che fare con Evgenija Nikolaevna gli provocava dolore. Lui soffriva comunque, sia che lei stesse bene e fosse serena, sia che stesse male o fosse in difficoltà».
Novikov, di passaggio con i suoi reparti a Kujbyšev, si fermò un giorno a salutare, col batticuore, la sua Ženja. I due mangiarono pane nero e acqua bollita, poi della kaša gelata. Quando le disse che quel giorno era il più bello della sua vita e le chiese a che cosa stesse pensando, lei non rispose. Scrive Grossman: «Evgenija avrebbe voluto dirgli che le dispiaceva per Krymov: lei lo aveva abbandonato e lui non aveva nessuno a cui scrivere, nessuno da cui tornare, gli erano rimaste solo la tristezza, una tristezza disperata, e la solitudine. […] era davvero per sempre, davvero non poteva più tornare indietro? Povero Nikolaj Grigor’evič, povero Krymov… Perché doveva soffrire in quel modo?» Poi, chiacchierando, fu indotta dalla piega che aveva preso la conversazione a fare a Novikov una pericolosa confidenza riguardante il marito. Gli rivelò il fatto che, in passato, Trockij, lo spauracchio dei bolscevichi, aveva lodato un suo scritto: «“Era nel Komintern e conosceva Trockij… Che una volta, leggendo un suo articolo, ha detto che era ‘scritto nel marmo’”», scrive Grossman. Tale colpa passiva, che poteva costare l’internamento in un gulag vita natural durante, Krymov l’aveva riferita, a suo tempo, soltanto alla moglie. Dopo essere tornato al suo reggimento, Novikov, per difenderla dalle insinuazioni dei colleghi ufficiali circa l’ortodossia bolscevica della sua famiglia, riferì loro improvvidamente che non era colpa di Ženja se il fratello si trovava in un gulag e non era colpa sua se Trockij aveva elogiato un articolo del marito. Quegli ufficiali misero immediatamente in moto i canali repressivi del regime, riportando la scottante informazione a chi di dovere. In poco tempo Krymov fu arrestato e condotto a Mosca, alla Lubjanka, sede della polizia segreta.
Nella capitale sovietica intanto, una volta fermata l’avanzata tedesca nel Paese, aveva potuto fare ritorno, da Kazan’, la famiglia della sorella di Ženja, da cui quest’ultima fu ospitata quando, dopo aver appreso la notizia dell’arresto di Krymov, per cercare in qualche modo di aiutarlo, abbandonando tutto, decise di partire per la città. Come tutte le donne che si vedevano imprigionare da un giorno all’altro il padre, il marito o i figli, anche Ženja cominciò a fare le penose e umilianti file presso gli uffici della Lubjanka allo scopo di ottenere notizie dell’arrestato e per fargli avere se possibile vestiti, cibo, denaro. La prima volta che vi si recò, avvicinandosi al tetro edificio la cui sola vista incuteva un cupo timore ad ogni russo, confidando nella facoltà dei sentimenti puri di abolire la causalità e le leggi della fisica, pensò dolcemente «Ciao Nikolaj», e sperò che in qualche modo lui potesse avvertire la sua presenza, divenendo magari inquieto senza capire perché. Disorientata e smarrita nella folla di donne provenienti da tutta la Russia che cercava di avere informazioni sui famigliari incarcerati, Ženja aspettava pazientemente il proprio turno per tentare di infrangere il muro che ora l’enormità di uno Stato aveva posto tra lei e il marito. Scrive Grossman: «Una sola cosa voleva, in quel momento: far sapere a Krymov che era lì, che per lui, per raggiungerlo, aveva lasciato tutto quanto». Avrebbe voluto in particolare fargli avere un pacco. A casa, la sorella, alla quale Krymov non era mai piaciuto a causa della sua tenace fiducia nel regime, le rimproverava di aver interrotto la relazione con Novikov, un ottimo partito a suo avviso, per andare dietro a un uomo che non meritava la sua abnegazione. Ma Ženja, che pure si addolorava per aver preso la decisione di affrancarsi da Novikov e per avere reciso il corso di un sentimento vivo, pensava soltanto a Krymov, di cui, al contrario della sorella, conosceva anche i pregi. Scrive Grossman: «Tutto ciò che, nel cuore e nel cervello, non aveva chiarito fino in fondo quando aveva lasciato Krymov, tutto ciò che in segreto l’aveva tormentata e angosciata mentre se ne andava – l’affetto che ancora provava, le preoccupazioni, l’abitudine a lui – nelle ultime settimane si era intensificato, come riacceso. Pensava a lui al lavoro [Ženja a Kujbyšev aveva un lavoro], in tram e nelle code per la spesa. Lo sognava quasi tutte le notti, e piangeva, e urlava, e si svegliava. […] e pensava a lui anche la mattina, quando si lavava e si vestiva in tutta fretta, temendo di far tardi al lavoro. Non credeva di amarlo. Ma si può pensare continuamente a un uomo che non si ama?».
In una cella della Lubjanka, Krymov si chiedeva perché fosse stato arrestato, quale fosse l’accusa che gli veniva mossa. Quando, nel corso di un interminabile e brutale interrogatorio, dopo aver ricostruito la sua vita e sottolineato le sue presunte mancanze nei confronti del Partito, l’interrogante gli nominò Trockij e pronunciò le esatte parole con cui questi aveva lodato il suo articolo, allora lui comprese. Scrive Grossman: «Nessun altro aveva mai sentito quella frase detta a quattr’occhi, solo Ženja, e dunque era da lei che l’aveva saputo l’inquirente. L’aveva denunciato lei». Crollò tutto per Krymov. Tornato in cella: «Arrancò fino alla branda, e quando lo strazio sembrava ormai insopportabile e il cervello pronto a scoppiare […], nella gola e negli occhi capì: non poteva essere stata lei! […] Provò una sensazione meravigliosa», scrive Grossman. I compagni di cella pensarono che fosse impazzito, perché sul suo volto sfigurato dalle torture e dallo sfinimento, pieno di sangue incrostato e lividi, apparve un sorriso innaturale. Non poteva essere stata Ženja, non poteva essere stata lei. Intorno a sé aveva muri, cose, facce ostili o indifferenti, avversione e contrarietà ovunque volgesse gli occhi stanchi; dentro di sé aveva soltanto la cognizione del dolore fisico, sentiva fitte lancinanti, spasimi acuti, incommensurabile voglia di dormire, eppure qualcosa in lui ascese alla certezza, come se fosse una verità situata su una vetta che trascendeva la logica dei fenomeni, che Ženja non poteva essere stata. È questo il punto più alto e rarefatto a cui la tormentata vicenda di Krymov e Evgenija, fatta di adorazione e pietà, si eleva. Nonostante lo avesse miseramente abbandonato, apparentemente dimenticato e immediatamente sostituito con un uomo più bello e più forte di lui, nonostante soltanto lei fosse a conoscenza di quella inezia che ora gli costava sofferenze atroci e troncava la vita, lui seppe, contro ogni ragionevolezza, che non era stata Ženja a denunciarlo. Se si volesse conferire un aspetto a questo lampo di conoscenza superiore, che è simile a un’intuizione mistica, si potrebbe forse paragonarlo, fatte le dovute distinzioni, al trillo che nell’Arietta dell’ultima sonata per pianoforte di Beethoven (op. 111) anticipa e accompagna la ritrovata calma della fine: un tremulo culmine luminoso posto al di sopra di ogni cosa, a cui il pensiero può sperare di innalzarsi soltanto percorrendo le ripide scale dell’irrazionalità. Qualche giorno più tardi, in cella, fu consegnato a Krymov un pacco. Scrive Grossman: «Krymov lesse la lista del contenuto, la grafia gli era familiare: cipolla, aglio [utili contro lo scorbuto], zucchero, pane bianco secco. E sotto: “Tua Ženja”». Krymov, malconcio e tremante, pianse.
Nelle pagine del romanzo, Krymov e Ženja esistono ed agiscono avendo sempre vicino a sé l’assenza viva dell’altro. La loro è una vicenda umana di appartenenza, fondata però sulla separazione, che il pacco tuttavia, attraverso il quale i due astrattamente si ricongiungono, annulla. Esso rappresenta il compimento delle loro rispettive esistenze in quanto amanti e ne ristabilisce l’univocità. Consegnandolo all’intendente dell’ufficio della Lubjanka, Ženja, che in seguito abbandona Mosca e scompare dalla narrazione, fa idealmente ritorno dal marito e gli conferma la propria presenza. Krymov, ricevendolo, si vede rinascere nella mente della moglie e comprende che non è stato rinnegato: “Tua Ženja” ha potuto leggere in calce alla lista, e nel significato di tali parole potrà trovare conforto dagli innumerevoli orrori che lo attendono in un gulag. A lui, a Ženja e a tutto il popolo russo sarebbero certo dovuti toccare in sorte tempi migliori in cui essere e sentire, una vita e un destino diversi, ma “la fortuna umana è dono degli dei”, canta Eschilo.