L'anticonformista Carlo Cracco
Carlo Cracco non è un personaggio facile. Né in televisione né nel retro della sua cucina, che si tuffa nel ventre di Milano come il leggendario ristorante di via Bonvesin de la Riva, dentro il quale si è formato. La sua sovraesposizione mediatica, perseguita senza sosta, insieme a una certa spocchia confusa a timidezza, risvegliano in noi lo stupore di Charles Swann quando si imbatte in Vinteuil, l’autore della Sonata che aveva tanto amato, sorta di leitmotiv intonato da un violino e un pianoforte lungo i 7 volumi del romanzo, e non riesce a riconoscere nella sua figura anodina l’artista dall’estetica superiore che tanto lo commuove. Impossibile. In modo non così dissimile dalla Recherche proustiana, la cucina italiana negli ultimi due decenni ha fischiettato la frase pregna di “bonheur noble, intelligibile et précis” orecchiata in via Victor Hugo a Milano. Un’ossessione, quasi un tormentone, che ha dettato ritmi e cellule melodiche ancora appese nell’aria.
Carlo Cracco, dicevamo: ogni fonema ha una sua simbologia e quel martellamento di occlusive velari sorde (4 volte /k/ su 7 consonanti) sembra scandire il dettato della cucina che verrà. Laconica, spigolosa, impertinente. Poco propensa, sotto il profilo caratteriale e gustativo, alle liaison e alle blandizie equilibriste. Oltre che alla cabala, questa durezza è probabilmente dovuta all’educazione religiosa. Nato a Vicenza nel 1965 in una famiglia piccolo borghese (il papà è ferroviere), Cracco ha infatti frequentato il seminario, di cui non dimenticherà le pareti color malva, citate in tanti piatti per il tramite delle patate viola, prima di sedersi sui banchi dell’alberghiero di Recoaro Terme e intraprendere la carriera altrettanto monastica del cuoco. Con la fortuna di approdare praticamente subito, nel 1986, all’ombra della toque di Gualtiero Marchesi, insuperabile talent scout e pigmalione. Da via Bonvesin de la Riva, primo 3 stelle italiano, partiranno i binari stilistici su cui continuerà a viaggiare la sua cucina, forse la più fedele fra quelle dei tantissimi allievi.
È dapprima la volta della Meridiana di Garlenda, in provincia di Savona, e della trattoria Da Gerbione a Ponteranica, nel Bergamasco. Segue l’incontournable pellegrinaggio nella Mecca francese, dai mostri sacri Ducasse e Senderens. Il dividendo che ne stacca al ritorno in Italia è la direzione delle cucine dell’Enoteca Pinchiorri, che però abbandona subito, per riaffiancare, nelle vesti di chef, Gustavo Marchesi all’Albereta. Qui conosce e forma Paolo Lopriore, Enrico Crippa e, soprattutto, Matteo Baronetto, suo alter ego in cucina, secondo di una vita. Ma a premere, ormai, è l’avventura in solitario, iniziata alle Clivie di Piobesi d’Alba, dove con Baronetto comincia a sviluppare il suo stile anticonformista e siderale. E a farsi notare. Arruolato dai fratelli Stoppani come chef di Cracco-Peck grazie all’intermediazione di Allan Bay, nel 2007 lo rileva e diventa chef patron del ristorante Cracco, per lungo tempo indiscutibilmente il primo di Milano.
I motivi di un successo tanto époustouflant, prima di critica, poi di pubblico in pantofole davanti alla TV, sono racchiusi come molle nei centimetri del piatto, rigorosamente bianco, francescanamente ricamato dagli spazi vuoti. Marchesiano oltre Marchesi, perché se ogni artista crea i suoi predecessori, come scriveva Borges, qualsiasi allievo può ben reinventare il suo maestro. Tanto che per le cucine italiane si aggirano diversi Marchesi in cerca d’autore, uno per ciascuno dei discepoli eccellenti. Quello secondo Cracco-Baronetto ostenta un certo moralismo neoplatonico, la cerebralità, il minimalismo intransigente e scorticato. Un’estetizzazione apollinea che però trova un bilanciamento dionisiaco nel gusto, che non conosce le remore del bonton ma si tuffa a capofitto nel godimento barthesiano del nuovo che spariglia i codici.
La vera cifra del ristorante, infatti, sta nella dialettica fra lo chef e il suo secondo, avvinghiati in una simbiosi non meno feconda e vorticosa del taijitu. Dove Cracco si fa garante di un classicismo severo e modernissimo (giacché per dirla con Ionesco, la vera avanguardia è una ruggine che corrode le forme del suo tempo, fino ad evincerne lo scheletro anacronistico e universale), Baronetto del cortocircuito gustativo, senza conferire soverchia importanza a una tecnica che (incredibile dictu, soprattutto negli anni 0) resta timidamente sullo sfondo.
Esemplare in questo senso il rognone con i ricci, testa a testa fra mineralità caparbie, nella cui elementare struttura binaria si intravvedono le seducenti leggi del bello. Quello che secondo i formalisti russi si sviluppa come contrapposizione di equivalenti e inconciliabili, metriche sensoriali e scaloni metaforici, quale abilità insomma di fare coincidere virtuosisticamente il vicino e il lontano, le frattaglie di terra e le frattaglie di mare. “Come non scorgere una legge dell’estetica in questo obbligo di paragonare i contrari?”, si chiedeva già Roger Caillois.
Ma la prosodia regola anche la costruzione del menu, per esempio grazie alla pasta di pesce, che proietta il principio di equivalenza dall’asse del paradigma a quello del sintagma (per dirla con Jakobson), ovvero in virtù della sua natura spuria propizia effetti di rima con qualsiasi altra portata del menu, a cominciare dai primi reali. La presentazione originaria del piatto come quaderno di mare (manifestazione esplicita della pulsione alla bibliofagia, ribadita dall’uso dell’ostia per confezionare ravioli e dalla preparazione di un risottino di carta appallottolata) ha segnato il valore asintotico nella tensione culinaria verso lo statuto semiotizzato e culturalizzato di testo. Una collisione sfiorata per un soffio, dove il topos biblico si è fatto magnete di una materia tassonomicamente ambigua, un po’ cosa e un po’ segno. Secondo lo statuto nomade della cucina concettuale.
Ma l’assalto al cielo ha ripiegato negli ultimi anni verso quote decisamente più terragne, in sintonia con la virata verso la cucina pura seguita alla crisi di afasia dell’avanguardia. Un tuffo nel gusto non meno affascinante delle pirotecniche concettuali, che imbastisce sul canovaccio delle leggi estetiche i panneggi del solito tuorlo marinato, giapponismo magico convertito in tagliolini essiccati con castagne e tartufo bianco o in un carpione con giardiniera di verdure.
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