Le parole che precedono il suicidio
Tutti gli studenti di filosofia hanno sentito raccontare almeno una volta la storia di quel loro collega che, dovendo redigere un testo sul tema della morte, consegnò al professore un foglio perfettamente intonso e ottenne il massimo dei voti. Un aneddoto volto a significare che non esistono parole adeguate per trattare l’argomento in modo riflessivo, poiché a nessuna coscienza è data la possibilità di descrivere in prima persona l’esperienza del trapasso.
Per contro, è il linguaggio immaginifico degli artisti che sembra essersi avvicinato all’enigma della caducità umana con maggiore sensibilità. Fin dalla notte dei tempi poeti, musicisti e pittori hanno tentato di penetrare il mistero e alcuni, grazie alla potenza evocativa dei loro strumenti, sono anche riusciti a creare capolavori di ineguagliata suggestione. Come Mozart con la sua Messa da Requiem o Caravaggio con la Morte della Vergine, giusto per citare due esempi noti a chiunque.
Ciò non di meno, resta comunque il fatto - e per quanto si tratti di un truismo vale la pena ricordarlo - che la morte non si vive. Né la propria, né quella altrui. Non la si capisce, né la si conosce. Quindi, se ne possono rappresentare solo le apparenze, mentre la realtà del suo contenuto concreto rimane inevitabilmente confinata nei meandri dell’immaginario.
Drammaticamente reale e assolutamente fisico è invece il corteggio di sofferenze e angosce che precede e segue l’attimo della fine. Un tessuto di ineluttabilità e dolore di cui tutti hanno l’esperienza e nella cui soffocante irreversibilità l’immaginazione più mutevole confeziona, appunto, l’idea di ciò che la morte potrebbe essere. Fino al punto di concepirla talvolta come un istante glorioso o una liberazione auspicabile, tal altra di temerla come una punizione immeritata o, ancora, di fingere al suo riguardo l’indifferenza che si riserva agli avvenimenti meno significanti. In un coacervo di ipotesi, timori, speranze, rimpianti e rimorsi talmente inestricabile e confuso da rasentare la follia. Una tragedia che si replica nel teatro della mente ogni giorno e in ogni dove, mettendo a nudo la cruda verità della nostra impotenza di fronte al fato.
Con profonda empatia per la fragilità di qualunque vita, Gabriele Tinti ha riunito nel libro Last words (Skira) una serie di biglietti d’addio, lasciati da persone che hanno scelto di non attendere l’arrivo di una morte indesiderata. Documenti, trovati sui giornali o nei verbali di polizia, scritti durante gli istanti che hanno preceduto un suicidio con parole semplici e pesanti quanto le pietre. Ad essi l’autore ha accostato le fotografie scattate nella morgue da Andres Serrano. Perfettamente composte e altrettanto laceranti. Bellissime, ma a stento sostenibili.
In modo da celebrare con un coro funebre la memoria di quelli che non hanno potuto resistere alle asprezze del mondo, Tinti ha deciso di mettere i loro testi, indirizzati a pochi o a una sola persona, sotto gli occhi di tutti. Con coraggio e senza impudicizia alcuna. E i pensieri privati, una volta divenuti pubblici, hanno rivelato il proprio valore universale. Ultime parole di eroi sconfitti, eppure ancora capaci, malgrado l’infinita stanchezza, di un gesto estremo di disperazione e di rivolta, di un conclusivo sussulto di vita. Grida di dolore che rimarranno inascoltate dall’interlocutore cui erano rivolte, ma il cui suono continua a echeggiare nelle orecchie di un auditorio più vasto, come un poema epico dell’essere quotidiano.
Privo di ogni artificio letterario, il libro si dipana in forma di componimento in prosa, ricordando da vicino l’Antologia di Spoon River, la raccolta di poesie di cui la pubblicazione in Italia fu fortemente voluta da Cesare Pavese (la sua ultima nota – “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene?” - potrebbe fare parte del volume). Unica e fondamentale differenza è che in Last words il ritratto di ogni personaggio non è tracciato dall’autore, ma si evince dalle sue stesse parole. Lapidarie – “E’ tempo “ – malinconiche – “I miei occhi riflettono l’infelicità del profondo buio dentro di me” – irose – “Addio mondo di merda” – euforiche – “Sarà un evento spettacolare” – o infinitamente tristi – “Lascio questo posto senza nient’altro che sogni infranti e vuote promesse” – tutte lasciano trasparire un’indole diversa, un volto sofferente con la singolarità dei suoi lineamenti, una vicenda individuale e solitaria.
Questo è il paradosso che rende particolarmente amara la lettura del libro, si tratta di messaggi lasciati da persone isolate e consapevoli che non avrebbero mai ricevuto una risposta, eppure il lettore non si può impedire di sentirsi interpellato, provare una sensazione di profondo disagio nell’impossibilità di interloquire, come se quelle ultime parole gli rivelassero con violenza che ogni vita riguarda chiunque. E, senza dubbio, l’importanza e la bellezza di questa piccola grande opera sulla morte risiede proprio nel lancinante desiderio di vita che ne abita le pagine.