L'Harry's Bar e il consommé alla vodka
“Un turista è quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento che arriva, mentre un viaggiatore parte sapendo che potrebbe non tornare affatto”. Dicono questo Debra Winger e John Malkovich, all’inizio de Il tè nel deserto, al giovane che li ha accompagnati in Africa. Un’asserzione che richiama vestiti di lino chiari, cappelli a larghe tese, bauli, sigarette, drink, tradimenti e disincanto. Tanto disincanto.
Cosa c’entra con quello di cui dobbiamo parlare? Niente. Ma fa entrare nella “parte”.
Perché stare seduti all’Harry’s Bar è un’esperienza esistenziale e disincantata insieme. Aleggiano i fantasmi di Arturo Toscanini e Guglielmo Marconi, Charlie Chaplin e Orson Welles, Ernest Hemingway e Truman Capote. Il “Bellini” e il “Carpaccio” sono nati tra queste mura.
Il Bar venne fondato da Giuseppe Cipriani nel 1931 e il nome deriva da uno studente americano, Harry Pickering, che negli anni Venti si trasferì a Venezia con una zia per curarsi dall'alcolismo. Dopo poco venne piantato in asso dalla zia, senza un soldo, senza essersi curato e senza la possibilità di tornare a casa. All'epoca Giuseppe Cirpirani era il barman dell'hotel in cui risiedeva il ragazzo e, toccato dalla storia, gli prestò 10 mila lire - una somma ingente in quegli anni - per tornare a casa. Dopo qualche anno Harry tornò a Venezia guarito dall'alcolismo e ricco: restituì a Cipriani una somma ben maggiore, circa 30 mila lire, per aprire una sua attività. Cosa che Cipriani fece subito, dando il nome del ragazzo al suo nuovo bar.
Quando si entra all'Harry's è consigliato sedersi nei primi tavolini sulla destra: sono quelli che danno meno nell’occhio e dai quali si vede tutto. Sono piccoli e scomodi, molto scomodi, ma ci ha bevuto Hemingway, magari raccontando agli amici il suo Di là dal fiume e tra gli alberi. I tavoli hanno le tovaglie bianco avorio e i bicchieri rotondi, e di questi tempi non è poca cosa. Ordinare il Bull Shot: un cocktail a base di vodka, brodo di manzo, tabasco, sale e pepe. Costa poco più di dieci euro, ma non si rimpiangeranno. Guardare gli avventori americani (non quelli russi, peraltro pochi in questo bar), significa tornare al film di cui sopra, perché qui tutto è calma, lusso e voluttà.
Dalle piccole finestre, nelle sale accoglienti del bar, si ammira il Canal grande incontrare quello della Giudecca, col suo fresco vento primaverile. E guardando l’antica dogana, sopra la torre quadrata in pietra d’Istria, si scorgono due Atlanti sorreggere una grande sfera di bronzo dorato sulla quale si libra la Fortuna.
Adesso, mentre la Fortuna è all’orizzonte, sorseggiando questo ottimo consommé alcolico, bisogna pensare a chi è in piazza San Marco, tra piccioni e camerieri insolenti, tra giapponesi che fotografano e guide turistiche che agitano bandierine, magari bevendo un beverone alla fragola con cannuccia e ombrellino di carta. E che non si possono spendere meglio poco più di dieci euro.