Muoio per non morire
Il 28 marzo del 1941, a cinquantanove anni, Virginia Woolf si annegò nel fiume Ouse. Fu ritrovata tre settimane dopo affiorante dall’acqua con delle pietre nelle tasche. La mattina di quel giorno il marito Leonard era in giardino e pensava che Virginia fosse in casa. Quando verso l’una rientrò per pranzare trovò sulla mensola del caminetto una lettera che iniziava così: «Carissimo, sento con certezza che sto per impazzire di nuovo. Sento che non possiamo attraversare un altro di quei periodi terribili. E questa volta non ce la farò a riprendermi. Comincio a sentire le voci, non riesco a concentrarmi. Così faccio la cosa che mi sembra migliore». Virginia aveva già tentato due volte in passato di fare la cosa che le sembrava migliore: nel 1904, in seguito ad una crisi dovuta alla morte del padre, si gettò da una finestra; nel 1913, dopo aver terminato Crociera, il suo primo romanzo, cadde in un lungo stato di prostrazione mentale che culminò in un’overdose di Veronal. In genere le sue crisi nervose erano legate all’immenso sforzo che le costava la creazione letteraria: quando terminava un’opera, il senso di vuoto e l’ansia relativa alla sua riuscita la sfinivano a tal punto da divenire, spesso, crollo emotivo e sconvolgimento psichico. Il 9 gennaio – nelle settimane in cui stava per terminare il suo ultimo romanzo (Tra un atto e l’altro) – aveva annotato nel suo diario: «Vuoto. Tutto gelo. Sempre gelo. Fuoco bianco. Fuoco azzurro. Gli olmi rossi. Non intendevo descrivere, ancora una volta, le colline sotto la neve: mi è venuto. […] Qual è la frase che sempre ricordo, o dimentico. Guarda per l’ultima volta tutto ciò che è bello», parole che costituiscono il primo segno manifesto del suo scivolamento nello squilibrio decisivo. Nei due mesi successivi il marito, avendo notato il progressivo cedimento di Virginia e paventando un suo nuovo possibile gesto estremo, cercò di sorvegliarne i comportamenti con discrezione, ma non riuscì a impedire che ascoltasse il mormorante richiamo del fiume.
Il 31 agosto del 1941, a quarantanove anni, Marina Cvetaeva si impiccò al chiodo di un’isba di Elabuga. In fuga dai bombardamenti di Mosca, era arrivata in quella sperduta località della Russia interna – con il figlio adolescente – soltanto da pochi giorni. Dopo aver vissuto a lungo all’estero, si era convinta a fare ritorno nella sua sospirata patria appena due anni prima. Il marito e la figlia, che l’avevano preceduta, erano già stati prelevati e arrestati dall’NKVD. A Elabuga, un borgo di contadini, le era stato assegnato un sordido alloggio in coabitazione. La miseria che aveva contraddistinto i suoi anni parigini e assediato giorno dopo giorno la sua nitida creatività, si palesava ancora una volta in tutto il suo squallore, aggravata dalla paura paralizzante di un possibile arresto (la polizia segreta l’aveva più volte interrogata e la teneva sotto controllo), dalla pena infinita per la sorte del marito e della figlia, dall’avversione che le riservava il figlio tanto amato, dalle continue umiliazioni, dalla stanchezza… le sole entità che la attorniavano nella sua orribile realtà priva di luce. Qualche mese prima aveva scritto nel suo diario: «Nessuno vede – nessuno sa – che già da un anno (quasi) cerco con gli occhi un gancio, ma non ce n’è: dappertutto c’è la luce elettrica. Niente più “lampadari”. Da un anno misuro – come un abito – la morte. Tutto è mostruoso e spaventoso. Inghiottire qualcosa – mi fa schifo, gettarmi giù – l’ostilità, la mia innata repulsione per l’acqua. Non voglio mettere paura (da morta), e ho l’impressione di avere già paura di me stessa – da morta. Io non voglio morire, io voglio non essere. Stupidaggini. Finché sono necessaria… ma, Signore Iddio, come sono piccola, come non posso nulla! Sopravvivere è ingoiare. Amaro assenzio». Quel giorno d’agosto le capitò di trovarsi da sola nel tugurio assegnatole… insieme a un chiodo ritorto conficcato nel soffitto. Non si lasciò sfuggire l’occasione.
Ottant’anni fa, a distanza di qualche mese e di migliaia di chilometri, due donne incantevoli soddisfecero una medesima volontà di autoannullamento. Non potendo più continuare ad essere se stesse, dovettero non esserlo più. Ma cosa divennero dopo, nulla? Tutto cessò? O una volta varcata l’ultima soglia, qualcosa di loro, una scintilla, chissà dove, rimase? E se qualcosa di entrambe rimase, in quale stato si ritrovò – e ritrova – a sussistere? Migliore o peggiore di quello che, annientando se stesse, lasciarono? Non c’è risposta a queste domande. Socrate stesso, il più saggio degli uomini e il più celebre dei suicidi, non ne aveva una: dopo aver inutilmente perorato la propria causa presso l’eliea, se ne congedò affermando: «È giunto ormai il tempo di andare, o giudici: io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al dio». Forse, però, un’idea riguardo alle imperscrutabili vicissitudini ultramondane la serbava in se stesso, anche se di carattere negativo, cioè fondata su una stima della vita. Nei momenti della fine, dopo aver assunto il pharmakon, pronunciando le sue ultime parole, disse all’amico Critone: «Mio caro Critone, siamo in debito di un gallo ad Asclepio; dateglielo e non ve ne dimenticate». Usava offrire allora un gallo al dio della medicina chi guariva da un’infermità e tornava in salute, ma quale fosse il male da cui Socrate si considerava guarito è stato oggetto di diverse interpretazioni. La più calzante sembra essere quella secondo cui egli, attraverso l’amico, voleva disobbligarsi nei confronti del dio perché lo aveva finalmente curato, per mezzo della cicuta, della malattia della vita. La stessa malattia da cui, senza l’aiuto di nessuna divinità benevola, trovarono faticosamente guarigione Virginia e Marina.