Nerone, il Colosseo e l'obelisco
Recentemente lo storico dell’arte Tomaso Montanari, tutt’altro che nostalgico del Fascismo, ha fatto notare a chi – a 72 anni dalla fine della Guerra – vuole demolire i rarissimi fasci littori rimasti in giro e abbattere (poi solo cancellarne le scritte) l’obelisco fascista del Foro Italico a Roma, che ai Musei Capitolini è in bella mostra il busto di Nerone. La ragione per cui il busto di Nerone rimarrà ancora a lungo protetto da furie iconoclastiche è che tra lui e noi c’è la debita distanza, storica e psicologica, per vederlo come un importante documento del passato, pur restando il fatto che è noto per aver fatto incendiare Roma, avvelenare Seneca, assassinare la propria madre e aver sposato un ragazzo dopo averlo fatto castrare.
La distanza tra noi e Nerone è indubbiamente diversa dal caso dell’obelisco del Foro Italico, ma ormai anche quest’ultimo, oltre che politicamente innocuo, è fondamentalmente un documento storico e come tale non va toccato. Non più, almeno. Sarebbe stato comprensibile farlo subito dopo la Guerra, ma ora non più. Senza questa distanza psicologica ed emotiva, che non è un’invenzione recente, visto che risale al Rinascimento, quando si cominciò a studiare e comprendere con nuova serenità la trascorsa età classica, anche se intrisa di paganesimo, la lista delle opere da demolire sarebbe enorme.
Ad esempio il Colosseo, creato come luogo di svago in cui le famiglie romane andavano a vedere esseri umani sbranati vivi da bestie feroci o gladiatori costretti a uccidersi tra loro. E la mancanza di distanza ne ha fatto per secoli una cava di marmo, con nostro grande rammarico oggi. Sempre a proposito di mantenere la distanza di sicurezza, non sappiamo se il povero Giove fosse o meno consapevole di essere un sexual harrasser, madi recente le Metamorfosi di Ovidio sono state bandite da uno dei più importanti college americani con l’accusa di destabilizzare le studentesse femminili. Dà da pensare – sempre a proposito di distanza – che l’esigenza di dare una sistemata proprio alle Metamorfosi l’abbiano già avuta durante il Trecento francese, con la loro riscrittura nell’Ovide Moralisé. Ma nel Trecento, tempo in cui la religione cristiana in Europa era al centro della vita pubblica e privata di chiunque, la giusta distanza col mondo classico non era nemmeno pensabile, tanto che Villard de Honnecourt considerava Castel sant’Angelo (il mausoleo di Adriano), niente più che «la sepouture d’un sarazzin» (la tomba di un saraceno), ma la debita distanza di oggi consente di studiare tutte queste cose con serenità.
E invece, il fatto che Colombo avesse “molestato” una nativa centroamericana, è diventato della medesima urgenza che se l’avesse fatto un paio di anni fa, e diverse sue statue sono state decapitate da indignati tardivi. Gli oggetti, sia artistici che letterari, architettonici, come quelli più comuni (nei musei ci sono migliaia di monete fuori corso, tazze, vasi, pettini, spille, giocattoli) cambiano contesto e destinazione d’uso, diventando documenti storici. E per sapere come fossero i tempi andati, al di là di racconti soggettivi e talora parziali, non attendibili, si ricorre ai documenti. Come criticare il contenuto del Mein Kampf o dei Protocolli di Sion se tutte le copie esistenti fossero state bruciate? Se tre anni fa i guerriglieri del Daesh distruggevano Palmira o se in Afghanistan si prendevano a cannonate le statue del Buddha in quanto idoli di altre religioni, la cosa era immediatamente comprensibile se ricondotta all’integralismo religioso che ispirava tali azioni. Ma mentre in questi contesti la cultura dello storicismo manca pesantemente, anche nel laicissimo Occidente sembra esaurirsi la capacità di convivere con i simboli del passato e crociate che appena apparse sui vari media facevano sorridere, ora stanno diventando una cosa seria. Il dogmatismo non è più un’esclusiva della religione tradizionale, ma si è esteso a quella parallela del politically correct, che ha sacerdoti, vestali e tribunali della fede.
Proprio di questi giorni è la notizia di una petizione per rimuovere Thérèse dreaming di Balthus dal Metropolitan Museum di New York, perché – stando al punto di vista dei suoi detrattori – “promuove la pedofilia”. E, a proposito di veri e propri “bisogni indotti”, a parte il fatto che grazie a questa iniziativa il quadro potrebbe suscitare pruriti nei potenziali pedofili che fino a un mese fa non lo avevano mai neppure sentito nominare, è un quadro che per ottant’anni nessuno ha mai pensato di nascondere agli occhi dei visitatori per un simile motivo (il confronto con Il trionfo di venere del Bronzino, del 1545, serenamente esposto alla National Gallery di Londra, darebbe una bella lezione di distanza storica). E si provi a pensare a cosa accadrebbe se davvero si intendesse andare a fondo con questa crociata, cioè rintracciare con i criteri di oggi tutti i maschilisti, pedofili, palpeggiatori e “haters” che hanno trovato un posto nella Storia. Non ci sarebbe troppo da stupirsi se qualcuno prendesse l’iniziativa di riscrivere, come risarcimento simbolico, le parti maschili del Don Giovanni di Mozart (che a ben vedere non è proprio gender friendly) per soprano.
E col medesimo criterio si dovrebbe stilare la contro-lista dei martiri, cioè persone dalla condotta sessuale ai propri tempi non ufficialmente accettata, mettendo in secondo piano il vero valore del loro lavoro. Non è chiara la portata di questa carnevalata globale né quanto potrà durare, ma una sua ulteriore propagazione non avrebbe altro effetto che una desertificazione della storiografia e una sua sostituzione con il dogma del politicamente corretto integralista, che divora avidamente nozioni consolidatesi dopo lunghi e complessi processi culturali. E non ha gran che da proporre, tranne la lotta senza quartiere a qualunque cosa abbia – indistintamente dall’epoca a cui appartiene – l’onta della parzialità o della lontananza dall’idea che nel presente si ha della correttezza e del rispetto delle differenze. Ma non avendo una teoria, vive come i parassiti degli organismi che combatte, e in un mondo sempre più liquido, dove ogni certezza e punto fermo rimasto in piedi attraversa una profonda crisi, il politically correct prolifera senza posa come un’edera su quei muri che vorrebbe abbattere.