Odisseo, l'eroe umano. Troppo umano
C’è un quadro di Arnold Böcklin che riassume tutto il dramma di Odisseo. L’eroe greco è di spalle, assume le fattezze di un’ombra, ed è forse avvolto in un tetro mantello; più in basso, Calipso lo osserva e il suo egoistico sguardo d’amore potrebbe tradire una dolorosa compassione, forse amore anch’essa, una pietà per l’uomo “dalla mente accorta” che si dispera per la sua terra irraggiungibile. L’opera si intitola Ulisse e Calipso (1883, conservata al Kunstmuseum Basel, Svizzera), e la sua forza inquietante irrigidisce lo spettatore, una forza che si sprigiona anche dall’altro suo quadro, famosissimo, L’isola dei morti, che potrebbe a sua volta raffigurare l’Ade descritto nell’Odissea. È un dipinto che non smette mai di incantare con la sua tetraggine e la sua sinistra irrealtà, con quella distesa d’acqua che pare essere ai confini del mondo, i cipressi lugubri e rigidi, come fuori del tempo, e quel defunto terribile, avvolto in una tunica bianca, in attesa di arrivare con il traghetto a riva, simile a un prigioniero in attesa di essere giustiziato. Un morente appare anche Odisseo nel quadro da cui siamo partiti. Un cielo grigio e una cupa scogliera dominano il dipinto con la loro oscurità e con un senso di malinconica desolazione che sempre accompagna le spiagge invernali; Calipso, innamoratissima, sembra aver smesso improvvisamente di suonare per ascoltare il lamento del suo amato, che si erge come una sentinella di pietra scura rivolta verso il mare. Egli è uno “squarcio” nella tela, un abisso che racchiude la disperazione umana. Terminando la lettura dell’Odissea, mi è tornata in mente quella poesia di Billy Collins (Cercando), nella quale il poeta racconta di un suo studio sulla storia di Barcellona, e confessa di ricordarsi soltanto la descrizione del gorilla albino rinchiuso nello zoo della metropoli spagnola. Fiocco di neve è il centro attorno al quale ruota la memoria e l’attenzione del poeta, proprio come Odisseo piangente sulla costa dell’isola Ogigia è l’immagine più forte che l’Odissea mi ha lasciato. È lui il vero, autentico eroe umano che si distrugge nel desiderio del ritorno, sulla cui anima grava una potentissima nostalgia. Odisseo, “con gli occhi sempre bagnati di lacrime, consumava la vita sospirando il ritorno. Non gli piaceva più, la ninfa Calipso: di notte, suo malgrado dormiva, nell’antro profondo, pur non volendo, accanto a lei che lo voleva. Ma di giorno, sulle rocce in riva al mare, con gemiti e lacrime straziava il suo cuore, e piangeva, guardando il mare infinito”.
Un eroe umano, troppo umano, dicevamo, in virtù del quale capiamo come millenni di storia non abbiano cambiato l’uomo in alcuni dei suoi aspetti più intimi. È sufficiente pensare a quanto sia antico e lontano nel tempo il poema omerico per avere un senso di vertigine, per restare stupefatti dalla nostalgia di Odisseo, un’emozione che ce lo rende così familiare.
Tuttavia, l’Odissea è un’opera importantissima anche grazie alla distanza radicale e incolmabile che ci separa da essa. Perché Odisseo è umano, anela al ritorno, si dispera e piange, lotta per rivedere la sua patria, ma questa vicinanza non riesce ad annullare quella differenza che separa l’uomo antico dall’uomo frammentario del nostro tempo. Odisseo, infatti, proprio come tutti i protagonisti dell’Odissea, non cambia mai: vent’anni di vagabondaggi non sono sufficienti per scalfire la figura granitica dell’eroe greco. Non lo cambia il mare con le sue insidie e le sue minacce, non lo cambia la prigionia nell’isola di Calipso, non lo cambiano le esperienze sessuali che ha con lei e con Circe. Niente può deformare la figura di Odisseo, colui “che è molto paziente”. Il tempo e gli eventi (non importa quanto tempo, se vent’anni o due giorni e due notti; né importa quali eventi accadano, siano essi la guerra di Troia oppure l’incontro con Scilla e Cariddi) non mutano il cuore del re di Itaca, il quale di umano ha soltanto i sentimenti, e questo cuore batte in guerra o in mare con l’unico, indistruttibile anelito al ritorno alla propria terra.
Il fatto è che non è soltanto l’immutabilità di Odisseo ad apparirci lontana. Probabilmente, la fissità del protagonista e di tutti i personaggi aveva (e continua ad avere) una fondamentale funzione simbolica, era ed è un meccanismo di produzione di archetipi che tracciano le linee essenziali dell’essere umano. La lontananza più grave e gravosa che ci separa dal poema omerico risiede ancor più radicalmente nella figura di Itaca. Perché Odisseo può essere umano nei sentimenti ma immutabile nella sua storia, può essere “molto paziente” e “molto astuto” (polymetis), può essere molte cose, tante quante sono le parole che vengono impiegate nell’opera per descriverlo, ma una cosa resta certa: Itaca esiste, è la sua terra nativa, e ad essa vuole tornare. Qualsiasi cosa accada, qualsiasi distanza di spazio e di tempo lo separi da casa, qualsiasi sia l’esito delle sue peripezie, la morte o la sopravvivenza, Itaca resta là, e ad attenderlo ci sono Telemaco, Penelope ed Eumeo, il guardiano del porcile (e anche loro, nel tempo, restano immutati: per vent’anni Penelope aspetta fedele il marito; per vent’anni Eumeo idolatra il suo padrone; per vent’anni Telemaco, dall’infanzia alla giovinezza, ammira il padre e va, infine, alla ricerca di sue notizie). Ha dunque senso il suo viaggio, benché non voluto e causato da una serie di eventi infausti. La sua avventura ha uno scopo e ha una meta, e questa meta coincide con il punto di partenza. Itaca è la casa, il centro attorno al quale ruota tutta l’esperienza di Odisseo. Ed è proprio Itaca a mancare oggi. La letteratura e il pensiero del novecento e del nostro tempo sono segnati dalla mancanza di un punto fermo al quale approdare, di una terra che racchiuda il senso della propria esperienza, che rappresenti il nostro mondo e la nostra realtà. Assieme a un’umanità frammentaria, senza identità, impersonale, ben lontana dall’immutabilità di Odisseo, la caratteristica fondamentale del XX secolo è l’assenza di un mondo dai contorni ben definiti, la mancanza di una realtà a cui agganciarsi. La nostra odissea è destinata a consumarsi tra le onde, in un universo dove, come scrisse Yeats, “le cose cadono a pezzi/il centro non può tenere” (Il Secondo Avvento).
Come esempio azzardatissimo e stonato, proviamo a confrontare l’Odissea di Omero con Sulla strada di Kerouac. Le differenze sono profonde, i mondi sono totalmente alieni l’uno dall’altro, ci sono di mezzo più di duemila anni, eppure il cuore della questione è proprio questo: a Itaca, terra natia, si sostituisce il solitario e spietato territorio americano che non ha un centro, non è la terra su cui approdare. “Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché arriviamo” – “Finché arriviamo dove?” – “Non lo so, ma dobbiamo andare”: non è difficile leggere battute come queste tra le righe di On the road – più difficile è immaginarsi Odisseo rispondere così a uno dei suoi compagni di viaggio: egli, al contrario, sa dove andare (e, soprattutto, sa dove vuole andare) e sa perché si trova in mare. I protagonisti di Sulla strada hanno invece perso di vista i confini, la meta, non hanno un centro da raggiungere né un motivo preciso che possa in qualche modo giustificare la loro odissea americana. Confrontando Sulla strada e l’Odissea ne risulta un mondo che si è schiantato: ad affondare non è stato Odisseo, bensì Itaca, e con l’avvento del novecento si solcano oceani senza confini.
Torna così in mente il quadro di Böcklin da cui siamo partiti. Si ripensa subito a quell’Odisseo agghiacciante, nero, una macchia priva di spessore. Ad osservarlo attentamente, pare che Böcklin abbia disegnato il nostro Odisseo, quello della letteratura novecentesca, l’Odisseo impersonale, scavato, che non può descrivere la realtà né ritrovare il suo mondo. Un Odisseo di fronte all’assenza di Itaca.