Parliamo di Carver?

Marcello De Blasio

Di cosa parliamo quando parliamo di Raymond Carver? La risposta è tutt’altro che semplice. Birdman, il film di Iñárritu, può essere l’occasione per riscoprire un celeberrimo racconto dello scrittore americano, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, il quale dà anche il titolo a diverse raccolte pubblicate in Italia (Einaudi e Minimum Fax), racconto che il protagonista del film cerca di mettere in scena sotto forma di pièce.

La trama è molto semplice, come sempre accade con Carver: due coppie, Nick e Laura, Mel e Teresa (Terri), accompagnate da due fresche bottiglie di gin, discutono d’amore in cucina. Nel complesso, il vero protagonista del racconto è il cardiologo Mel, perché è quasi sempre lui ad esprimersi e a cercare di definire l’amore. Man mano che l’ebrezza aumenta, gli esempi e le riflessioni si fanno numerose: dall’amore violento di un marito che si lega alla moglie a suon di botte, all’amore spirituale e a quello fisico. A un certo punto però Mel dà una svolta al discorso: “Che ne sappiamo noi dell’amore?”, chiede. “Secondo me, siamo tutti principianti, in fatto d’amore”. Queste frasi preparano al vero centro del racconto, quando Mel riporta una vicenda che gli è capitato di osservare in ospedale, un evento che, secondo lui, “ci dovrebbe far vergognare quando parliamo come se sapessimo di cosa parliamo quando parliamo d’amore”. Un incidente stradale ha ridotto in fin di vita una coppia di anziani; essi sopravvivono miracolosamente, ma il più grande dolore del marito è di non poter vedere, ancora dopo svariati mesi, la moglie convalescente: “voglio dire, quel vecchio coglione” dichiara con eleganza il cardiologo, “stava morendo solo perché non riusciva a vedere quella cazzo di moglie”. Insomma, l’esempio riportato da Mel dovrebbe rappresentare l’amore vero, l’amore alto e sincero, quello che non svanisce né permette all’amato/a di andarsene.

Ora, tutto il racconto di Carver, nonostante la scrittura pulitissima e seria, appare superficiale e vacuo: non c’è sostanza, non c’è eleganza, e le riflessioni dei protagonisti sono volgari e frivole. Non è una novità per le opere di Carver, la maggior parte dei suoi racconti sono leggeri, così inconsistenti che spesso ci si dimentica di averli letti. Fermarsi a questo livello di lettura è, tuttavia, un grave errore, perché la peculiarità di Carver è quella di riuscire a rappresentare la cultura americana (ma potremmo dire, ormai, la cultura contemporanea) nella sua materialità e stupidità. La sua scrittura trascrive perfettamente la vuotezza della società odierna; troveremo, di conseguenza, un linguaggio talvolta scurrile – “finiamo questo cazzo di gin”; “per qualsiasi cazzo di cosa combattessero”; “ti spacca il culo”; ecc. -, riflessioni futili e ragionamenti disimpegnati, uomini violenti e donne insulse, il tutto trascinato da azioni quotidiane e situazioni ordinarie. Il fatto è che questi aspetti non dimostrano la debolezza di Carver, bensì il suo punto forte, la cifra del suo stile fotografico e purissimo che riesce a immortalare la superficialità del nostro mondo (per lui, naturalmente, il mondo americano): il suo è un realismo minimale vero e proprio, in grado di rendere immediatamente riconoscibile ogni situazione descritta. Ne risulta un’immagine chiarissima della realtà effimera di tutti i giorni, gli uomini e le loro azioni sono veri proprio perché sono grezzi, ordinari e stereotipati. Quello di Carver è un mondo brutalmente umano: sono umane le debolezze, umani i vizi, umani i gesti e i pensieri dozzinali che vengono espressi nei suoi racconti, umana la tragedia esistenziale che si cela dietro ogni piccola situazione. Un senso di profonda solitudine e di leggera disperazione accompagna, di fatto, tutte le opere dello scrittore americano. L’alcol, elemento ricorrente nei suoi racconti nonché nella sua vita, fa da collante sociale e da farmaco imprescindibile per sopportare l’esistenza. Memorabile al riguardo il racconto intitolato Da dove sto chiamando, e in particolare quando leggiamo frasi come questa:

Per qualche motivo – chi può mai sapere perché facciamo le cose che facciamo? – comincia a bere sempre di più. Per parecchio tempo beve birra e solo birra. Qualsiasi tipo di birra, non importa quale. Dice che era capace di bere birra ventiquattro ore al giorno. Beveva birra la sera, guardando la televisione. Certo, ogni tanto beveva qualcosa di più forte. Ma solo se andava fuori, in città, cosa che non capitava tanto spesso, oppure quando lo veniva a trovare qualcuno. Poi, a un certo punto, non si sa perché, passa a bere gin and tonic.

Anche in Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, quando il discorso si è concluso e nessuno sa più che sciocchezze dire riguardo all’amore, nel momento in cui finisce il gin calano le tenebre sui protagonisti (che ricordano quasi i partecipanti di un moderno simposio greco all’americana). “E adesso?”, si chiede Terri. Una domanda che è un’epifania a tutti gli effetti, uno squarcio che svela la miseria e l’isolamento esistenziale dell’uomo, costantemente coperti dalla frivolezza del mondo contemporaneo e metodicamente anestetizzati dall’utilizzo delle droghe, in questo caso l’alcol. La grandezza di Carver risiede nel fotografare perfettamente, tramite una scrittura asciutta e veloce, gli stereotipi e la superficialità dell’uomo, in una dolorosa convivenza con la sua solitudine.

 

 

04-04-2019 | 17:19