Più che il denaro potè l'olezzo

Lui, su Fiat 1500 cabriolet, il foulard che gli sventolava al collo, apriva la carovana dei pellegrini verdiani. Il pomeriggio del 25 aprile 1960 facevamo vela, gomma anzi, fra le terre verdiane. Ci lasciavamo alle spalle le spiritose frecciate di Pietrino Bianchi che a Parma fingeva di smontare il nostro entusiasmo durante la vernice dell'Istituto di studi verdiani, presentato dal fondatore Mario Medici al Teatro Farnese: una realizzazione che si aspettava da molto tempo, quel centro verdiano che finalmente aveva fatto centro. Dopo la cerimonia, insieme ad autorità, invitati, redattori e collaboratori del primo Bollettino Verdi (tra i quali Francesco Flora), ci imbarcammo verso i "luoghi santi", per l'ultima consacrazione. A Busseto il sindaco Stefanini e Giovannino Guareschi fecero gli onori di casa al Palazzo Pallavicino, dove una bimba suonò su un vecchio piano mignon il brindisi della Traviata. Quindi, compiuto il rituale omaggio a Sant'Agata, Giovannino ci guidò a Roncole: uno spuntino all'aperto con lambrusco e culatello, di lato al suo ristorante, di lato alla casa dove il Maestro era nato: là, a pochi metri, i suoi vagiti, che sarebbero diventati canti immortali. Mario Medici invitò Guareschi a farsi in qualche modo collaboratore del Bollettino. Lui si schermì e chiese piuttosto di ricevere tutti i numeri man mano che uscivano.

Il patron di Peppone e Don Camillo naturalmente guardava con ammirazione a Verdi, ne capiva la grandezza altissima e semplice. La semplicità dovunque, anche nelle opere più elaborate, il filo sincero e durevole della melodia, "sottile e luminoso filo d'argento che si spegneva ad un tratto: ma rimaneva il solco nell'aria" (lo sente Giovannino, nel racconto La banda). Il filo d'Arianna che indirizzò tutti i sentimenti del genius loci, amor di patria compreso.

Questa specie di semplicità fu anche la bandiera di Guareschi: diede sapore di vero, tanto ai suoi scritti, quanto alla sua esistenza, in totale sintonia con la civiltà contadina, la stessa di Verdi, una condizione umana indispensabile alla sua vena di scrittore, a reggere la volontà nel faticato mestiere che, col passare degli anni, tendeva a piegarlo. L'ossigeno alla fantasia gli veniva dal clima, dall'umidità greve della Bassa padana, che molti giudicano quantomeno irrespirabile. Ma chi è cresciuto in riva al grande fiume, se ne fa una ragione: un'aria nutriente per la terra, deve esserlo anche per l'uomo, per la sua mente. 

In proposito il mio carissimo Augusto Lamoretti (per qualche tempo sindaco di Busseto), mi ha lasciato un ricordo ammirevole di Guareschi. Negli anni Cinquanta-Sessanta, Giovannino teneva il giovane Lamoretti un po' sotto le sue ali: fra l'altro gli sarebbe piaciuto vederlo corrispondente da Busseto di un qualche giornale. Augusto così poté verificare di persona, in varie occasioni, la solidarietà di Giovannino, la sua disposizione nei confronti del prossimo, dei compaesani, ai quali diede prove numerose di generosità, non sempre ricambiate da uguale riconoscenza. Questo non gli impediva di continuare a essere quello che era, un carattere libero e leale, amico di tutti, anche di quanti non la pensavano come lui (che poi non era facile pensarla come lui, occorreva altrettanta indipendenza e fermezza).

Ma veniamo a quando Augusto fu testimone dello straordinario incontro, in cui l'aria bassa della Bassa trovò nelle parole di Guareschi un'impagabile, affettuosa difesa. Una volta (sicuramente dopo il 1961) il suo editore, l'onnipotente cumenda Angelo Rizzoli, era venuto col figlio Andrea a Roncole di Busseto, per tentare di convincere una celebrità della Casa intorno a un nuovo gran progetto di collaborazione. Lamoretti fece l'atto di allontanarsi, per lasciarli soli a conversare senza orecchie indiscrete. Giovannino in modo piuttosto sbrigativo lo pregò di restare. E così, a un tavolino davanti al locale, senza nessuna parvenza di etichetta, i Rizzoli per quasi un pomeriggio si provarono invano a sedurre il loro prezioso campione. 

Il momento era particolarmente delicato: in seguito alle pressioni esercitate da alte gerarchie politiche, Guareschi si era dimesso da Candido, il settimanale da lui fondato con Giovanni Mosca per conto della Rizzoli, nel 1945. Il gesto provocò la chiusura del periodico e Giovannino a metà ottobre del 1961 aveva espresso il suo rammarico ad Andrea Rizzoli: se avesse saputo che la lettera di dimissioni avrebbe provocato la soppressione della ‘creatura’, si sarebbe rimangiato il proposito dimissionario, anche per non danneggiare il nuovo direttore Alessandro Minardi e l'intera redazione. Ma il dado era tratto; tornare indietro sarebbe stata un'operazione alla moviola, ma non corrispondeva alla realtà. 

Ed ecco le conseguenze: sepolto Candido, i Rizzoli bussavano alla porta di colui che "candidamente" aveva suscitato il clamore più indiavolato a favore della loro Casa. Lo rivolevano a Milano, gli offrivano una sistemazione in pianta stabile che avrebbe fatto invidia a tutti i suoi colleghi della carta stampata, un incarico dirigenziale all'interno dell'editrice, un contratto che Guareschi poteva regolare a piacimento e che tra l'altro, dati i cospicui introiti, gli alleviavano l'obbligo di scrivere da forzato, con dispendio di energie. Naturalmente avrebbe dovuto trasferirsi di nuovo alla capitale lombarda, dove era stato per anni. E qui stava il problema. Guareschi si rifiutava di staccarsi da Roncole: a parte che aveva il ristorante, lontano di lì non riusciva neanche a pensare. Avrebbe mandato gli articoli per ferrovia, con la solita posta fuori sacco, ma lui il treno per Milano non lo prendeva. I Rizzoli, a ogni rifiuto, rilanciavano alzando il valore dell'offerta. 

Fu verso il tramonto, quando su tutto il circondario si sparse un irritante effluvio di letame, aggravato dal vapore afoso della tarda estate, che Guareschi lanciò ai suoi interlocutori la stoccata risolutiva, una domanda retorica: "... Ma poi sinceramente, dite: ma come farei a vivere, poi? A vivere senza di questo bell'odore di merda?". 

I due ammutoliti si alzarono di scatto, si congedarono e raggiunsero la loro Chevrolet… Giovannino era soddisfatto (mi confidava in seguito Augusto) non per la vittoria, ma perché l'olezzo dei campi aveva sconfitto quello dei bigliettoni.

 

 

23-07-2020 | 17:10