A proposito di Margaret Thatcher
Questa è una lettera d’amore postumo. Inviata a una donna che credevo di dover odiare per tutta la mia vita, e, indirettamente, all’uomo che per comparazione e contrasto me l’ha fatta amare.
La donna si chiamava da ragazza Margaret Hilda Roberts, è passata alla storia come Margaret Thatcher, familiarmente la chiamavamo Maggie. Fino alla morte siedeva alla Camera dei Lords col titolo di Baroness of Finchley, che era il suo collegio elettorale, sarebbe come dire Baronessa di San Siro.
Ma aveva anche una sfilza di soprannomi: Thatcher-the-Milk-Snatcher, la ruba latte, perché da sottosegretario all’Istruzione aveva tolto il latte gratuito nelle scuole; Borsetta d’acciaio, Rambona, al tempo della guerra delle Falkland (c’era un manifesto che la rappresentava in guepière di cuoio con borchie, tacchi a spillo, giarrettiere e frusta in mano). Ma soprattutto il soprannome più durevole fu Bitch, stronza, anzi, Superbitch, Superstronza.
Parlava sempre del suo babbo, da cui aveva imparato tutto, il mitico droghiere Roberts, consigliere comunale, poi sindaco di Grantham, il cui motto era: Non sprecare mai un solo minuto, o un solo penny! Raccontava che quando aveva nove anni, una marcia di protesta di lavoratori in sciopero da mesi e affamati – li chiamavano appunto the Hunger Marchers – erano passati davanti al suo negozio provvisto di ogni bendidio, il padre in piedi a guardia sulla porta le aveva detto: «Non dare neanche una briciola a quegli oziosi!». E imparò. Maggie era coraggiosa, e molto.
A Brighton, durante un congresso del partito di cui era leader uscì indenne da un attentato dell’Ira, borsetta blindata in mano, seni a blocco monopetto corazzato, senza un capello fuori posto grazie alla sua lacca all’azoto liquido, e alla sua grinta di diamante.
Chiamava quelli del suo partito che le consigliavano una politica più conciliatoria coi sindacati e più solidale con le classi povere, wets, i mosci. Era empia. Alla segretaria che le consigliava di mostrarsi non troppo contenta nel discorso che fece dopo la rotta del sindacato dei minatori, disse: «Lo so che non devo mostrare che sto sbavando di gioia. Però io sto sbavando di gioia!».
Considerava un po’ moscia tutta la Gran Bretagna. A una signora che le chiese perché avesse ordinato di silurare il cacciatorpediniere argentino General Belgrano – 330 morti – che aveva voltato la prua verso casa, rispose: «Solo in Gran Bretagna ti fanno domande del genere!». Spietata, carogna, villana come un cattivo da opera, un Conte di Luna in sottana. Ma profondamente sincera, nel suo orrore, mai ipocrita. Quando i suoi la pugnalarono alla schiena e lei si dimise, nell’ultima apparizione in Parlamento, fu così celebrata da un nemico della sinistra laburista: «Come uomo era migliore lei di tutti voi messi insieme!».
L’uomo che, per contrasto me l’ha fatta amare è Tony Blair, una confezione regalo di vaselina rosa profumata, un’assoluta ipocrisia soave, degna di Jago.