A proposito di Nomadland
Diciassette maggio duemilaventuno, al cinema. Una cosa per nulla da nulla. Non fosse per la mascherina, che asfissia abbastanza ma nasconde le smorfie automatiche davanti all’improvvisa sensazione di non essere soli davanti a uno schermo, ci si potrebbe sentire quasi normali, più felici in un certo senso o perlomeno più curiosi, come si stesse facendo una cosa totalmente nuova. Quando però il magnifico Nomadland, film di Chloè Zaho, inizia a scorrere, il cuore cambia ritmo e la giostra inizia a girare al contrario. Materia e colori di un realismo oggi più che mai necessario arrivano di traverso negli occhi, poetiche rughe e capelli radi ci fanno capire subito che non ci saranno sconti. Francis McDormand sin dalle prime scene è un potente Virgilio, ti arriva dentro con uno specchio riflettente in pieno sole, fino alla fine, notte inclusa. Si parte dal megamagazzino di Amazon, dove il contrasto fra quei gelidi pacchi in serie e i volti-libro della protagonista Fern e dei suoi compagni di lavoro precario e stagionale, ci indica subito la strada narrativa. I tatuaggi con frasi degli Smiths su braccia che su Instagram non farebbero furore ma che di sicuro ricordi di più di qualche foto patinata, i puzzle demodé nella lavanderia a gettoni, il camper con piccoli dettagli natalizi ormai assenti nelle case ma ben presenti nella memoria di tutti noi, mentre “Au lang syne” rincuora un po’ tutti canticchiata fra i denti stretti dal freddo della protagonista. Fran ha perso tutto, lavoro, casa, compagno. È una donna colta e intelligente, con una famiglia alle spalle e scorciatoie a portata di mano, che decide di andare avanti da sola, come può, a un’età in cui normalmente le sue coetanee fanno lavori domestici o accudiscono nipoti e giardini. Pur di preservare la sua libertà, anche quella di sentirsi sola. E con lei ci sono Linda, col suo fiore rosa tra i capelli a illuminare un dolcissimo sorriso guasto, c’è Swankie, coi suoi pochi mesi di vita ancora da vivere, la sua collezione di minerali e il progetto di andare comunque in Alaska “perché lì sono stata felice”; Swankie che “vede qualcosa di bello” e le basta, che sceglie come vivere anche quando sceglie come morire. E ancora il Babbo Natale dei nomadi, che ha perso un figlio e sceglie di dare agli altri invece di morire anche lui, il pianista consumato da anni di vita disordinata, ma che sorride ancora illuminandosi tutto quando poggia le mani sui tasti. Vecchi tosti, fra i giovani migliori che potremo mai incontrare o divenire, in romantica polemica con la dittatura del capitalismo e del consumo ma che per vivere spesso devono esserne ingranaggio, pur di preservare qualche stagione di pura libertà. E poi c’è quel ragazzo, coi suoi vent’anni veri, che vuole scrivere delle lettere ma non trova le parole. Non conosce la poesia, non ha memoria, ma trova il cuore di riconoscere in Fran una guida, seppure per il tempo dello scambio di due accendini. La colonna sonora di questo film esalterà tutti i viaggiatori di fortuna, quelli che prendo e parto e che bello non sapere quando arrivo e più dura il viaggio più felice sono. “On the road again”, noi che non abbiamo mai promesso che saremmo stati delle “Rose garden”, faremo tutti il tifo per il furgone scassato di Fran, che tanto varrebbe comprarsene un altro con quello che ci spendi per aggiustarlo, ma che ne sapete voi quanto ci ha messo a farlo diventare la sua casa. Dai cieli stellati alle padelle unte del fast food, dai paesaggi mozzafiato di un’America selvaggia e remota a mucchi di barbabietole a fare da poggiatesta in un’immagine che Van Gogh avrebbe immediatamente riprodotto con pennellate furiose, Fran non sopravvive come alcuni potrebbero pensare, ma vive davvero, senza compromessi, pagando i prezzi che deve pagare, non rinunciando mai a un’incrollabile coerenza esistenziale. Anche se è dura, fra merda e ruote che si bucano e freddo, e posti squallidi da cui non farsi sopraffare, dura che a volte ti sembra che non ce la farai fino alla prossima fermata. E quando un compagno di avventura decide di ricongiungersi con la sua famiglia ed offre a Fran una prospettiva di stabilità e comfort, quasi quasi ci sentiremo sollevati, ha vissuto tanto, ha viaggiato, è stanca, è sola. Anche Fran sembra rilassarsi, letteralmente fra due guanciali. Comoda e al caldo, in famiglia, dopo mesi di vita al limite. Ma non riesce a dormire in quella grande stanza. Deve stare a casa sua, in quei tre metri per quattro di A-VAN-GUARDIA, il suo furgone dove è riuscita anche a collocare il servizio dei piatti di famiglia. Troppa vita già passata in una piccola casa mentre tutto un mondo era lì fuori, ad aspettare, una famiglia di strada era lì fuori, da scegliere, tra firmamenti e latrine. Pietre nel vento, non resta che incontrarci lungo la strada ricordandoci almeno una poesia a memoria.