Provaci ancora Chandos
L’ottantanovenne Knut Hamsun concluse la sua ultima sofferta opera affermando categoricamente: «Oggi la Corte di Cassazione ha emesso la sua sentenza e io non scriverò più», una risoluzione comprensibile in uno scrittore spossato, afflitto dai malanni della vecchiaia e ormai indifferente agli insolubili enigmi dell’esistenza, che tra l’altro aveva già dato alla letteratura quel che le doveva. «Tutto ha sotto il cielo una sua ora, un tempo suo» afferma l’Ecclesiaste, e così, come i fiori ritraggono le loro corolle al calar della sera, anche l’anima traboccante si ritira un giorno nel silenzio. Diverso e forse meno suggestivo è invece il caso di Lord Chandos, il quale, pur essendo un personaggio immaginario – dettaglio irrilevante ai fini della presente nota, senza considerare il fatto che, per esempio, il principe Myškin o madame Chauchat sono indubbiamente più reali della moltitudine di esseri impalpabili in cui ci si imbatte vivendo – decise suo malgrado di smettere di scrivere. Lo fece però nel fiore dell’età, a ventisei anni, e non, come Hamsun, con un piede già nell’eternità… Nella sua insolita decisione inoltre non ebbero peso la stanchezza, il disinganno ultimo e la fatale refrattarietà dell’anima, ma arcane complicazioni di natura cognitiva.
Lord Chandos è una figura creata dalla penna di Hugo von Hofmannsthal, lo scrittore che alla fine del secolo XIX, ancora giovanissimo, sbalordì i più illustri e attempati colleghi letterati viennesi con la limpidezza dei suoi versi e la straordinaria levatura del suo talento poetico, prima di diventare celebre come librettista di Richard Strauss e, dopo la morte, come autore del capolavoro incompiuto Andrea o I ricongiunti. Nel 1902, a ventotto anni, pubblicò un denso testo in prosa al quale diede il titolo Ein Brief, noto in Italia come Lettera di Lord Chandos, in cui illustrava e portava alle estreme conseguenze gli effetti di un desolante inaridimento creativo che lo aveva personalmente riguardato e bloccato negli anni immediatamente precedenti alla stesura dell’opera. Come si evince dal titolo, essa consta di un’unica lettera, sincera e dolorosissima, che Hofmannsthal immagina redatta da un giovane ed estroso scrittore elisabettiano, Lord Chandos appunto, alle prese con la peggior iattura che possa riservare la sorte ad un uomo con una spiccata vocazione letteraria: la perdita della capacità di utilizzo del solo strumento di cui possa disporre per giustificare a se stesso la propria esistenza sulla terra, il linguaggio. In tale lettera – indirizzata al filosofo razionalista Francis Bacon, suo amico e maestro – Lord Chandos si scusa del suo prolungato silenzio, annuncia che in futuro non invierà né ulteriori lettere né tantomeno nuovi lavori letterari e comunica infine la ragione di tutto questo, ovvero l’intenzione di non scrivere più niente per il resto della vita, perché, dice: «[…] ho perduto completamente la capacità di pensare o di parlare in maniera coerente e logica su qualsiasi argomento».
Lord Chandos, che pure in passato aveva scritto diverse opere, racconta all’amico di trovarsi in un frangente della propria vita di assoluto disorientamento, poiché è avvinto dallo sgomento derivante dall’impossibilità di servirsi delle parole: esse gli sfuggono dalla mente, nell’attimo in cui vi compaiono il loro senso si sottrae al lume della ragione e si deforma irriconoscibilmente sino a disperdersi nell’indeterminatezza più inservibile: «Ogni cosa mi si frammenta in parti, e le parti in altre parti ancora» scrive a Bacon, parlandogli del suo singolare dramma, «e nulla più si lascia contenere in un concetto. Le singole parole mi fluttuano intorno; diventano occhi che mi guardano fissi e che io, a mia volta, mi sento costretto a fissare: sono gorghi, che a guardarli mi danno le vertigini, che girano vorticosamente senza posa e una volta attraversati i quali si torna nel vuoto». Egli non è più in grado di comunicare, i termini che designano le cose concrete e astratte del mondo, le loro qualità e i loro stati, sono divenuti degli specchi rotti che rimandano a significati andati in frantumi, inconcepibili. Un giorno si trova a dover rimproverare la piccola figlia per aver detto una bugia: già nel mezzo della frase, i concetti che evoca allo scopo di persuadere la bambina gli si sconvolgono nella mente così caoticamente che, impallidendo, finisce come può la ramanzina e fugge contrariato nei campi circostanti alla ricerca di spazio e solitudine. Come un pittore che rimane con la mano a mezz’aria perché vede i colori della sua tavolozza confusi in un amalgama indefinibile nel quale non è più in grado di riconoscere i blu, i rossi, i gialli e le diverse tonalità cromatiche con cui si proponeva di dipingere il suo quadro, così per Lord Chandos i significati delle parole si dissolvono nell’indifferenziazione semantica e diventano miseramente inutilizzabili. Egli non può più isolarli e ordinarli linearmente con una qualche finalità comunicativa: come se avesse disimparato i fondamenti della propria lingua e con essi le competenze linguistiche, l’atto del riflettere – come quello del parlare, dell’ascoltare, dello scrivere e del leggere – è per lui divenuto impraticabile. Ma, a volte, l’impossibilità di proseguire sul cammino che si percorre determina l’improvviso spalancarsi di nuove possibilità di avanzamento.
Un’altra esperienza, infatti, contemporanea e forse suppletiva all’impasse fatale rispetto alle parole che ha irrigidito la sua lingua e arrestato la sua penna, investe la povera mente di Lord Chandos. Gli accade talvolta di posare lo sguardo su un oggetto qualsiasi o di pensare a qualcosa di definito, e quell’oggetto o quell’immagine gli si rivelano all’intelletto in maniera così nitida, risolta e significativa da assorbire completamente la sua attenzione e assumere le fattezze di una trascendente compiutezza. Scrive a Bacon: «Un annaffiatoio, un erpice abbandonato nel campo, un cane al sole, un cimitero desolato, uno storpio, una piccola casa di contadini, tutto ciò può contenere la mia rivelazione. Ognuna di queste cose e le mille altre ad esse simili, su cui l’occhio altrimenti scorre con naturale indifferenza può assumere per me all’improvviso, in un momento qualsiasi che in alcun modo mi è dato di provocare, una sembianza nobile e commovente, che qualsiasi parola pare troppo misera per tentare di descriverla». Una sera vede sotto un albero un semplice annaffiatoio con un po’ d’acqua al suo interno e un coleottero, ma in tale visione egli non scorge soltanto quel che vede con gli occhi, vi ravvisa anche, chiara e intellegibile, la presenza dell’infinito, cosa che lo fa rabbrividire «dalla radice dei capelli fin nel midollo dei calcagni». Di quando in quando, inaspettatamente, gli occorre insomma di fare esperienza della realtà in modo profondissimo, sovrarazionale, ineffabile; essa gli si manifesta «con una tale pienezza, una tale presenza d’amore, che il mio occhio colmo di gioia non trova intorno a sé assenza di vita alcuna su cui posarsi. Tutto ciò che esiste, tutto ciò di cui ho memoria, tutto quanto i miei pensieri più confusi sfiorano, tutto mi sembra essere qualcosa […]. Mi sembra allora che il mio corpo sia fatto di pure cifre che tutto mi disvelano. O che potremmo intrecciare un nuovo presago rapporto con tutto ciò che esiste, se iniziassimo a pensare con il cuore. Ma quando questo singolare incantesimo mi abbandona, non so più dirne nulla: né riuscirei a esprimere con parole sensate in cosa consista questa armonia di cui siamo intessuti io e il mondo intero, e come si sia manifestata ai miei sensi […]». Gli inattesi momenti estatici in cui Lord Chandos incorre vivendo e percependo, momenti che non possono essere descritti con il linguaggio umano, il quale li pietrificherebbe in un’arida consecuzione di termini senza però renderne in maniera soddisfacente il contenuto ed esaurirne la sostanza, più simile a un cangiante fluire puramente spirituale che a una statica fissità fatta di apparenze, provocano in lui un’indicibile, miracolosa e immediata partecipazione all’essenza della realtà, quell’Essenza posta oltre la forma e l’aspetto degli enti sensibili come il gheriglio è posto nel guscio della noce, la quale si svela al suo sentire come uno stato di armonia, purezza, pace, omogeneità, concordanza, significatività, sterminata interezza. Di tale stato però, di tale «[…] misterioso, muto, sconfinato rapimento», Lord Chandos non può dare alcuna esatta spiegazione o definizione, e non può farne nessun resoconto, poiché il linguaggio dell’uomo, in fondo, non è che l’evoluzione dei mugugni primordiali ed è sorto dal bisogno concreto di rappresentare ciò che si trova sotto il dominio dei sensi, non ciò che, superandoli, prescinde da essi collocandosi in nessun dove, oltre il tempo e lo spazio. Situazione non nuova, del resto, nella vicenda del sentire umano.
Dall’alba del mondo, i mistici orientali e occidentali di ogni credo e di ogni epoca si sono inevitabilmente dovuti scontrare con i limiti costrittivi delle parole, quando hanno cercato di comunicare l’oggetto delle loro sovrumane esperienze ai loro discepoli, alla loro ristretta cerchia o alla collettività. Il più delle volte, per trasmettere la fluida natura di quel fondamento unitivo della realtà che nelle loro visioni meravigliosamente intravedevano, hanno usato espressioni misteriose, enfatiche, metaforiche, esoteriche, con le quali speravano di scalfire almeno un poco le rigide carenze del linguaggio. I loro tentativi sono insufficienti, per quanto lodevoli e letterariamente altissimi, accostamenti alla verità. Non essendo in possesso di un idioma adatto allo scopo (la lingua degli uccelli?), e non potendo che fare ricorso alla lingua appresa, quei venerabili maestri si sono accontentati di ridurre in qualche modo l’ineffabilità di quanto da loro irrazionalmente esperito attraverso l’uso estremo del linguaggio della razionalità, divulgando così soltanto l’ombra di quanto avrebbero voluto divulgare. Alcuni addirittura, fra cui Meister Eckhart o Lao Tze, per limitare il più possibile l’incongruità tra linguaggio ed oggetto mistico, hanno preferito assimilare quest’ultimo al nulla o al vuoto. Ma tutti i loro sforzi non sono che ammirevoli accomodamenti verbali di qualcosa che non è verbalizzabile. Accomodamenti che abbondano anche nella storia della letteratura, dove i momenti di estraniamento supremo non sono di certo rari. Lord Chandos è un caso fra tanti, degno però di una particolare attenzione perché le sue esperienze estatiche si accompagnano ad una simultanea perdita della capacità discorsiva, come se fossero un’oscura compensazione di questa. Fra i numerosi scrittori che nelle loro opere hanno fatto riferimento allo stato di perdizione nel tutto indifferenziato, si può citare il caso di un contemporaneo di Hofmannsthal, lo svizzero Robert Walser, il quale, nel suo racconto La passeggiata, quando il girovago protagonista giunge in campagna, con parole di trasognata bellezza scrive: «Ma il quadro meraviglioso del presente assurse subito a sensazione dominante. I giorni del futuro impallidivano, il futuro dileguava. Nell’incendio di quell’attimo arsi anch’io. Da ogni direzione avanzò luminoso, con splendido gesto beatificante, tutto ciò che è grande e buono. In mezzo alla bella contrada io pensavo solo ad essa, qualunque altro pensiero veniva meno […]. La terra si faceva sogno, io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa. Ogni forma esteriore si dissolse, il finora compreso divenne incomprensibile. Rimanendo alla superficie precipitai nel profondo, che immediatamente conobbi come il bene. Quello che noi comprendiamo e amiamo comprende e ama noi pure. Io non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso. Nella soave luce d’amore credetti di poter capire, o di dover sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore». Un altro tentativo, incantevole, di espressione dell’inesprimibile.
Del resto, a ben vedere, il linguaggio umano è davvero una cosa misera e molto imperfetta, sia che lo si rapporti alla sfuggente precarietà della realtà ultrasensibile sia che lo si relazioni alla realtà quotidiana, la quale però è indubbiamente più docile e arrendevole alle razionalizzazioni del discorso, anche se soltanto in parte. Come si può comunicare un incubo? Come si può spiegare al proprio interlocutore il sapore di un frutto a lui sconosciuto? Come si può descrivere la propria stanchezza o il proprio mal di testa? E l’amore che si prova in un dato momento? E la paura immotivata? In molti casi il linguaggio è manchevole e fallisce, cedendo immediatamente il passo all’approssimazione, a significati abborracciati che significano soltanto alla lontana quel che si voleva significassero. Leopardi, nella commoventissima e straordinaria A Silvia, vera vetta dell’infelicità terrena trasposta in parole, a cui non si dovrebbero riservare, in sé stessi, che il mutismo, lo stupore e il pianto, dovendo illustrare l’enormità benefica che da giovane custodiva in sé rispetto al futuro, quando, talvolta, dopo aver momentaneamente interrotto gli studi, affacciato al balcone, fantasticava in astratto sull’amore e sull’avvenire, scrisse: «Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno», riconoscendo così, verità che uno scrittore sente in ogni istante della sua vita creativa e contro cui in ogni istante combatte, la possibile inadeguatezza del linguaggio, strumento duro e imperfetto, rispetto alla realtà, che è invece un oceano in perpetuo mutamento. A Lord Chandos questa battaglia è negata da un fato che gli è avverso e che lo ha disarmato nella lotta contro le parole: la loro intima insensatezza ha avuto la meglio. Gli resta il dono, muto, delle esperienze originarie e profonde.
Lord Chandos, il quale da una parte ha perso la competenza discorsiva, e non può più parlare del mondo, e dall’altra ha acquisito la conoscenza intuitiva delle cose superiori, mondo di cui non può parlare, conclude la sua lettera a Bacone narrandogli del momento in cui tutto gli divenne chiaro: «Voi foste così benevolo da manifestare il vostro rammarico per il fatto che più non vi giungesse alcun libro scritto da me, a “compensarvi della privazione della mia compagnia”. In quell’istante io sentii con una certezza non priva di una sensazione di dolore che anche nel prossimo anno, e in quelli seguenti e in tutti gli anni di questa mia vita io non avrei più scritto nessun libro, né in inglese, né in latino: […] perché la lingua in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare non è né il latino, né l’inglese, né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua delle cui parole non una mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno, nella tomba, sarò chiamato a rispondere a un giudice sconosciuto». Questa contrastata lettera è l’ultima cosa che Lord Chandos scrisse, prima di chiudersi nel silenzio assoluto, come fece il vecchio Hamsun.