Questa sì che è Traviata
Traviata è un’opera non in costume. Così la voleva Verdi alla prima, nel 1853, alla Fenice di Venezia. Così rifiutarono di eseguirla i cantanti, che pretesero di andare in scena con ridicoli costumi di un improbabile XVII secolo, vera e propria rimozione censoria, in ogni senso. Mancò quindi l’impatto di un’apertura di sipario che porge al pubblico quello specchio evocato da Amleto, in cui potersi vedere riflessi in tutto il proprio naturale orrore. Quell’impatto lo ha restituito, con lancinante vivezza, la geniale regia di Robert Carsen nella Traviata che qualche anno fa ha inaugurato la nuova Fenice «com’era e dov’era».
Tra i segni più netti e leggibili dell’immane volgarità, corruzione e stupidità del nostro oggi, si consuma in tragedia la vicenda di una ragazza, giovane, coraggiosa e bella, carnale e desiderabile come lo è il bel corpo e la fresca voce di ragazza di Patrizia Ciofi: bel corpo che di continuo si trasfigura in puro canto, in puro gesto sonoro. E questo cercava Verdi: un teatro assoluto in cui il disegno melodico del personaggio sia il grafico della sua motilità interiore ed esteriore, dei sussulti dell’animo, delle intermittenze del cuore, del gesto e del movimento scenico che li esprimono, o li censurano, o li rimuovono.
Credo non dimenticherò mai più l’ultimo atto, la morte di Violetta, in quella stanza da letto, ambiente nel primo atto di trionfali e doviziose marchette, ora completamente spoglia, e lei stesa per terra, su un cappotto, assopita, con un televisore scassato posato in terra, acceso su un vuoto sfarfallio di neve elettronica – segno più perfetto di solitudine moderna non c’è –, e il niveo biancore dei violini divisi che ci reca all’animo, ma anche al naso e a tutti i sensi, l’odore di una stanza di malata, l’odore della solitudine, l’odore della morte.
Grande cultura viva è una simile regia. Ottima cultura viva anche la decisione di eseguire l’edizione critica curata da Fabrizio della Seta, e di offrire non un libretto di sala in stile strenna o cotillon da evento, ma un utile strumento di indagine ricco di esempi musicali, e con un perfetto saggio introduttivo dello stesso della Seta che chiude su una lucidissima frase. Violetta muore, perché Traviata è una tragedia. Muore irredenta, «perché non ha nulla da cui redimersi». Che grande artista d’avanguardia è sempre Verdi quando venga così bene aiutato a scrostarsi di dosso le cacche incrostate di quella pigrizia mentale che chiamano «tradizione». Cultura morta è invece il contenitore.
La Fenice «com’era e dov’era» è un cofanetto di caramelle Sperlari, un «Setteciuento» da negozio di mascarette per turisti. Già la Fenice che bruciò era un falso: un teatro di metà Ottocento che fingeva un teatro di metà Settecento. C’era però da dire che gli artigiani di allora, a confronto di quelli che oggi ci consegnano un falso di un falso, erano Raffaello e Tiziano. Si ammirino le muse di caramella gommosa che svolazzano nell’azzurro bidet del soffitto. Che l’Italia d’oggi non riesca neanche a progettare un teatro dentro il nostro tempo e per gli usi del nostro tempo, e replichi addirittura la gerarchia sociale di palchi, platea e galleria quale si era fossilizzata a fine Ottocento, è un ominoso segno di decadenza. Del proprio passato conosce solo la cartolina turistica, e la replica.