Sant'Agata, o cara, noi (non) lasceremo
C’è il letto dove ha dormito per cinquant’anni. C’è il suo fortepiano – antenato del pianoforte – dove ha composto molte delle sue opere. C’è la camicia da notte che indossava quel 27 gennaio 1901 quando, poco prima dell’alba, si spense nella sua camera del Grand Hotel et de Milan. E poi ci sono il suo amato cilindro, le lettere all’amico Alessandro Manzoni, le sue poltrone, i suoi dipinti più amati, le sue carrozze, il parco dove passeggiava, insomma tutto è fermo a quel giorno in cui lui salutava il mondo e il secolo (non suo) che stava iniziando. Parliamo di Giuseppe Verdi, forse il musicista più famoso di ogni epoca, e della sua amata villa a Sant’Agata, la casa che ha abitato per quasi tutta la vita. Sant’Agata, piccola frazione piacentina ma a “un tiro di schioppo” - come dicono da queste parti – dalle Roncole, altra frazioncina-ina-ina di Busseto, in provincia di Parma, dove è nato. E sia Sant’Agata sia le Roncole oggi completano il loro nome con il suo, Verdi. Qui alla villa è arrivato a neanche 40 anni, con la seconda compagna, la cantante Giuseppina Strepponi, perché dovettero fuggire da Busseto: gli insulti ai due conviventi non sposati erano diventati troppi. In questa casa Verdi compose alcune sue opere, comprese “Aida”, “Don Carlos”, “La forza del destino”, e la Messa da Requiem per la morte dell’amico Manzoni. Quando lui e Giuseppina non erano in giro per l’Europa e l’Italia – Parigi, Londra, Mosca, Milano, Venezia… – erano qui, nella casa della quale il grande compositore è stato anche “architettore”, per dirla alla Giorgio Vasari.
Questa casa Verdi l’ha progettata, costruita, curata, forse quasi più delle sue partiture. Una casa museo per la quale possiamo gridare al “miracolo”: la villa non è infestata – come tante case di grandi artisti – né da musica in sottofondo né da schermi al plasma che mandano il loop documentari o interviste: qui non ci sono proiezioni sui muri dove Violetta amoreggia con Alfredo, qui regnano la Storia e il silenzio, quello che ispirò il Maestro.
Il destino gli tolse la prima moglie Margherita e i due figlioletti piccoli, e lui e Giuseppina non ebbero figli: però adottarono Filomena, che divenne l’erede universale. Alcuni degli eredi di Filomena oggi vivono proprio in questa villa. E negli anni, nonostante sia una casa privata, c’è sempre stata la possibilità di visitare Villa Verdi, con tanto di visite guidate e book shop, tutto gestito dagli eredi, senza aiuti pubblici. Ma Covid-19 ha bloccato per mesi le visite, e ora la situazione è critica. Per questo la famiglia Carrara Verdi (Filomena sposò il figlio del notaio di Verdi, Alberto Carrara) ha lanciato un grido d’allarme sul portale innamoratidellacultura.it dando vita a una raccolta fondi– si possono donare anche soli 10 euro – per tenere la villa aperta al pubblico. “Abbiamo bisogno di tutti – spiega Angelo Carrara Verdi, uno degli eredi – per salvare il museo, che rischia la chiusura”. Anche perché essendo una casa privata (negli anni addietro i tentativi di collaborazione con il Ministero dei beni culturali non hanno prodotto niente) o le economie arrivano almeno al pareggio di bilancio o la chiusura è inevitabile. “Lo Stato è da sempre assente, quindi ci rivolgiamo ai cittadini" ribadisce Angelo, appellandosi a tutti coloro che nel mondo amano Giuseppe Verdi. Se chiudesse Villa Verdi al pubblico sarebbe un danno culturale e di immagine di dimensioni enormi per il nostro Paese.
Giuseppe Verdi era un genio assoluto ma era anche molto altro: uomo d’affari, litigioso e gentile, scorbutico, pieno di interessi e di curiosità, uomo “alto” e uomo “basso”, spesso contraddittorio, forse perché “conteneva moltitudini”, come scriveva di se stesso in quei giorni, dall’altra parte dell’oceano, Walt Whitman. Ed era un uomo molto generoso: a Milano fece costruire una casa di riposo per musicisti – “la mia ventottesima opera…”, disse – ancora oggi aperta, aiutò persone in difficoltà, si spese per i suoi compaesani. Insomma un gigante, punto. Ad alcuni politici di oggi, che rivogliono il vitalizio, dovrebbero sapere che quando Cavour lo chiamò in Parlamento lui accettò – solo perché a chiamare era Cavour, di suo non aveva alcuna ambizione politica – e che all’epoca i parlamentari non venivano pagati, lo facevano par amor di patria. Però veniva dato loro un carnet di biglietti per il treno, almeno avrebbero viaggiato gratis. Quello di Verdi è visibile in una teca della villa museo, ed è intonso. Il treno se lo pagava a sue spese, lui.