Sesso e droga nella vita di Ferida
Uno dei film più acclamati di Alessandro Blasetti è Un’avventura del Salvator Rosa, una sorta di zorro napoletano, protettore dei disgraziati e raddrizzatore di torti. Siamo a Napoli e l’oppressione spagnola si fa particolarmente cruenta dopo la rivolta di Masaniello. Salvator Rosa è il pittore più stimato dagli spagnoli che lo reputano loro amico, ignari che l’uomo abbia in realtà un doppio volto, anche quello del Formica, famigerato vendicatore popolare di torti. Con il suo coraggio riesce a salvare dalla morte alcuni contadini condannati per aver tentato di riportare alla loro terra l’acqua che una duchessa aveva fatto deviare, per alimentare le proprie fontane. Il Formica, dopo una serie di peripezie e azioni rocambolesche, tra il comico e il tragico, riesce a mettere a punto un sistema perché l’acqua arrivi a irrigare i campi dei poveri lavoratori della terra.
Tra loro c’è la bella Lucrezia, mora, ammaliatrice, interpretata dall’indimenticabile Luisa Ferida.
Luisa Manfrini, nata a Castel San Pietro il 18 marzo del 1914. Purtroppo per lei, nella scelta del suo nome d’arte si cela il tragico destino che connoterà la sua breve esistenza. Il nome Ferida, infatti, deriva da un vecchio stemma contenuto nella casa paterna e raffigurante una mano trafitta (“ferida”, appunto) da una freccia. Giovane di straordinaria bellezza, probabilmente frutto dell’eredità materna, trascorre molti anni in collegio dopo la morte del padre, perché considerata una ragazza abbastanza irrequieta e un po’ ribelle. E infatti non termina gli studi e fugge a Milano, città più aperta e dalle mille prospettive, nella quale inizia a farsi notare a teatro, recitando insieme a Ruggero Ruggeri e Paola Borboni.
Nel 1935 arriva la prima offerta cinematografica, per una piccola parte in un film, e la Ferida si trasferisce a Roma. È proprio Un’avventura del Salvator Rosa di Blasetti a lanciarla nel mondo vero della celluloide.
Donna dalla bellezza genuina, vera, per niente artificiosa, Luisa non fatica a farsi notare in mezzo a un mare di dive che invece amano contraffarsi e vestirsi della diafana purezza delle bambole di porcellana.
Lei è morbosa, tenebrosa, ardente, nella vita come sul set. Si innamora follemente del famoso attore Osvaldo Valenti, con lei nel film di Blasetti. Un uomo affascinante, cinico, spregiudicato, per niente facile.
Luisa fatica a far convivere il suo animo semplice, da brava ragazza di paese, con gli eccessi e la sfrenatezza della vita che Valenti le fa condurre, iniziandola anche all’uso della droga. La Ferida ritorna spesso al paese natale. Non dimentica il legame con la propria terra, con i conoscenti, con la madre che osteggia senza successo la relazione della figlia con l’eccentrico Valenti.
Luisa diventa presto l’emblema della donna che non è. La coppia Ferida-Valenti fa scalpore, suscita pettegolezzi, attira le malelingue che giurano di ritrovare in ogni dove i segni della lussuria e degli atteggiamenti disinibiti dei due amanti.
E intanto Luisa diventa un’attrice sempre più acclamata. Ne 1941, con il film Corona di ferro, che vince la Coppa Mussolini alla Mostra del Cinema di Venezia, il suo successo è indiscusso.
Una vita la loro però anche di sfarzi e di eccessi, condotta sempre sul filo del rasoio, tanto da portare entrambi sul lastrico. Sono i debiti a spingere Osvaldo e Luisa a lasciare Roma, nel 1943. Il Paese è ormai in delirio. Dopo la caduta del regime, il cinema non ha più valore di esistere. La guerra ha cancellato i sogni e l’ovattato mondo della celluloide. Valenti si illude che a Milano qualcosa possa cambiare, che ci sia ancora la possibilità di fare fortuna, sotto l’ala protettrice della Repubblica di Salò. Così vi aderisce, indossa la divisa della Decima Mas e diventa fedelissimo del principe Junio Valerio Borghese.
Luisa ovviamente lo segue. Lo avrebbe seguito ovunque probabilmente. A lei non importa da che parte lui si schieri. Lo ama e basta. E poi sono sempre stati così diversi, in fondo.
Lui colto, mitomane, uomo dalle straordinarie arti oratorie, capace di esprimersi in ben sei lingue, amante degli eccessi, anche nell’alcol, nel sesso e nella droga. Lei, focosa, popolana anche quando il successo la mette sul piedistallo delle dive, poco istruita, perché a soli diciassette anni abbandona le suore perché ha ben altro nella testa. Il sesso non è mai stato un problema per lei. Non ha disdegnato di diventare la convivente del suo primo produttore cinematografico, quando le è stato utile, e non ha disdegnato neanche di ammiccare con Blasetti, il quale però era avvezzo a bellezze diverse da quella della Ferida.
Neanche l’avventura al nord muta le cose. Valenti continua a illudersi di poter vivere la sua vita come fosse un’opera d’arte, perfetta e immutabile.
E lei lo segue, in tutti i suoi sfrontati eccessi. Quando diventa intimo amico del famigerato Pietro Koch, lei non lo ferma.
Si fanno assidui frequentatori di Villa Trieste a Milano, dove la polizia segreta di Koch compie atrocità di ogni tipo sui prigionieri che vi vengono rinchiusi. Si mormora che la Ferida partecipi alle sevizie, addirittura che danzi nuda davanti ai poveri torturati sanguinanti.
Ma di queste nefandezze non sono mai state fornite prove attendibili.
Voci. Come le molte susseguitesi su questa coppia dannata. Sono comunque questi loschi affari, nei quali i due si lasciano implicare, a scaraventare su di loro le ire dei partigiani.
Quando la situazione precipita, Valenti pensa ancora una volta di poter recitare una parte, di indossare una nuova maschera, come sempre ha fatto nella sua rocambolesca esistenza. Si consegna ai partigiani, il 10 aprile del 1945, convinto, con la sua favella, di convincere anche loro della innocenza sua e di Luisa, offrendosi di collaborare con le Brigate Matteotti, e di aiutarli a scovare i reparti della Decima Mas.
I suoi appelli restano inascoltati. In quel momento, per tutti, Luisa e Osvaldo restano i famigerati complici di Koch, dei torturatori di partigiani.
Vengono affidati a un certo Pasubio Marozin, il quale si occupa di tenerli nascosti in una cascina nei pressi di Baggio. Osvaldo è convinto di aver trovato un protettore, un amico. Non dubita della buona fede di Marozin, ma Luisa sì. Una venuta dal popolo forse sa leggerla la malafede negli occhi degli altri.
Marozin più che un partigiano si potrebbe definire un brigante, e non ci pensa due volte a privare i due amanti di tutti i loro averi, dopo essersi disfatto di loro.
Il 28 aprile la Ferida e Valenti vengono trasferiti in un appartamento di via Guerrazzi. Luisa alterna a momenti di totale disperazione altri in cui un piccolo spiraglio di speranza le fa intravedere un futuro, quando tutto sarà finito, quando la gente sarà tornata “normale”.
E invece l’epilogo si consuma in quelle ultime ore, nello squallido palazzo di via Guerrazzi, prima di essere trascinati via da una camionetta che li conduce in via Poliziano.
È il 30 aprile del 1945, quando Luisa Ferida e Osvaldo Valenti vengono fucilati. A Lucia Manfrini, madre di Luisa, viene riconosciuta, qualche tempo dopo, dal Ministero del Tesoro, una piccola pensione, motivata dalla “morte per cause di guerra” della figlia.