Sulla fragilità di Franz Kafka
Negli appunti di Kafka, si trova un piccolo gioiello narrativo di innegabile ed esemplare bellezza. Tale frammento, nonostante la sua brevità, è in sé mirabilmente compiuto e mostra in modo limpido l’eccelsa capacità creativa dello scrittore boemo. Esso ha il pregio di esibire in nuce i temi essenziali della sua poetica e di fare luce su uno degli aspetti più problematici della sua vita interiore, ovvero sul suo rapporto con l’eterno femminino. Il testo, le potenzialità del quale non sono state forse adeguatamente sottolineate dalla critica, è il seguente.
Amavo una ragazza, ed anche lei mi amava, ma la dovetti lasciare.
Perché?
Non lo so. Era come se fosse circondata da una cerchia di uomini armati, che tenevano le lance rivolte verso l’esterno. Appena mi avvicinavo a lei, urtavo nelle loro punte, restavo ferito e dovevo indietreggiare. Ho sofferto molto.
Non ne aveva nessuna colpa, la ragazza?
Non credo, o meglio, so che non ne aveva. La similitudine precedente è incompleta, perché anch’io ero circondato da una cerchia di uomini armati, che tenevano le lance rivolte verso l’interno, cioè contro di me. Quando cercavo di avvicinarmi alla ragazza, urtavo subito contro le loro lance e non riuscivo ad andare avanti. Forse non sono mai arrivato fino ai lancieri della ragazza e, se anche ci fossi arrivato, di certo ero già sanguinante a causa delle ferite provocate dai miei lancieri ed ero privo di conoscenza.
È rimasta sola, quella ragazza?
No, un altro è giunto fino a lei con facilità e senza ostacoli. E io, stremato dai miei sforzi, sono stato a guardare con assoluta indifferenza, come se fossi l’aria attraverso la quale i loro volti si univano nel primo bacio.
Il testo, di indole chiaramente autobiografica, narra la storia di un’intimità impossibile, oppure, riducendolo alla sua essenza ultima, la storia di una sconfitta necessaria. Sciogliendo le similitudini e penetrandone con attenzione il significato, comprendiamo come l’io narrante sia fatalmente condannato ad una dolorosa segregazione in se stesso: egli si trova al di qua di una barriera fatta di isolamento e alterità che gli impedisce di condividere la vita e lo costringe entro i limiti di una straziante clausura esistenziale, relegandolo senz’appello nella solitudine della monade. Sebbene lo desideri, la sua singolarità e la sua peculiare predisposizione al mondo gli negano la possibilità della vita in comune, quotidiana, ordinaria, con la ragazza, la quale, tra l’altro, come a ribadire la diversità costitutiva esistente tra lui e lei, è protetta da una seconda insormontabile barriera. Il protagonista-narratore, benché si sforzi di farlo, non può in alcun modo entrare in contatto lei, se non al prezzo di una sua totale trasfigurazione. Dovrebbe, in altre parole, cambiare radicalmente natura, mutare, diventare una persona diversa da quella che è, per arrivare fino alla ragazza e instaurare con lei una relazione concreta e non solo ideale, cosa però impossibile. È dunque costretto a lasciarla.
Kafka (1883/1924) era un essere raro e fragile, che sentiva di essere imprigionato in se stesso: «Io porto perennemente le sbarre dentro di me», disse al giovane Janouch. Egli era, essenzialmente, estraneo al mondo e all’umanità, sebbene avesse molti amici e una vita sociale, almeno in superficie, varia. La vicenda decisiva della sua vita fu il rapporto con il padre, che inesorabilmente lo sopraffece: «Dalla tua poltrona governavi il mondo. La tua opinione era giusta, qualunque altra opinione era pazza, stravagante, anormale. E con ciò la tua fiducia in te stesso era talmente grande che non avevi bisogno di essere coerente per avere ragione. […] Ai miei occhi assumesti l’aspetto enigmatico che hanno i tiranni, il cui diritto non si fonda sulla riflessione, ma sulla loro propria persona». Il padre, con la sua insensibilità, il suo materialismo e la sua soddisfatta superiorità, giorno dopo giorno, gli inoculò nell’anima il sentimento del proprio disvalore e gli insegnò in modo brutale la sfiducia in se stesso, che Kafka non poté che interiorizzare, vivere in ogni esperienza, compresa quella amorosa, e portare nel cuore fino alla morte. Con parole terribili, scrisse: «Nulla, neppure la tua diffidenza verso gli altri, eguaglia la mia diffidenza verso me stesso, nella quale sono stato allevato da te».
Il fatto di essere cresciuto in uno stato di distorta subalternità, in seno a una famiglia nella quale il suo essere meditativo, delicato, dubbioso, veniva negato e giudicato, contribuì a determinare – insieme ad altri elementi della sua biografia, come l’ebraicità, da Kafka sentita pateticamente – una visione della realtà avvertita come luogo di colpa, incomprensione e solitudine.
Nei suoi scritti maggiori, Kafka mette con decisione in risalto, sino a farne la sua cifra, il fatto che l’esistenza non sia altro che una lotta impari tra esseri deboli e impotenti e un destino indecifrabile, cieco, assurdo. Gregor Samsa, Joseph K., l’agrimensore K. ad esempio, i protagonisti delle sue opere più celebri, si portano dentro una solitudine soffocante, agiscono in una realtà incomprensibile e sono destinati ad una perenne sofferenza senza senso. Essi, privi di vie di fuga e di possibili catarsi, possono solamente rassegnarsi dinanzi all’enormità di forze grottesche, subirle e infine esserne miseramente schiacciati.
Questi elementi, sebbene in forma distillata e metaforica, sono limpidamente presenti nel frammento che qui si è riportato. Ma, oltre a ciò, in esso si trova esemplificata in modo chiaro la contraddittoria apprensione che i legami sentimentali non mancavano mai di suscitare nell’animo dello scrittore.
Egli visse poche relazioni significative. Le totalizzanti furono senza dubbio quelle che instaurò con Felice Bauer, tra il 1912 e il 1917, e con Milena Jesenská, nel 1920 (anno al quale presumibilmente risale il frammento). Entrambe queste relazioni, non è un caso, furono caratterizzate dalla lontananza, si svilupparono e consolidarono in absentia, nelle pagine delle lettere che Kafka e le due donne si scambiarono.
In generale, egli dava tutto se stesso nell’idealità del rapporto, ma quando le cose si facevano concrete, allora la sua passione sembrava ritrarsi e lasciare spazio alla titubanza.
Nella relazione con Felice, l’eventualità del matrimonio lo fece esitare a lungo: non si sentiva umanamente preparato alla vita a due, credeva inoltre che il matrimonio lo avrebbe privato di quella libertà di cui necessitava per poter scrivere, ma, allo stesso tempo, era attratto dall’idea di sposarsi, la vedeva come un’occasione di riscatto agli occhi del padre, come una prova di indipendenza. Tentennò per cinque anni, ma alla fine abbandonò Felice: i lancieri gli impedirono di raggiungerla, la sua irriducibile estraneità rispetto al mondo, vinse.
Milena era una giovane ragazza praghese, che viveva a Vienna e che Kafka conobbe in un caffè. Ella si offerse di tradurre in ceco un suo racconto e ciò facilitò l’instaurarsi di un rapporto epistolare che durò dal maggio al novembre del 1920. Kafka e Milena, in pochi mesi, si inviarono un fiume di lettere, tuttavia si videro di rado. Si incontrarono per quattro giorni a Vienna e per qualche ora in un paese austriaco di confine, tutto qui. La loro fu una relazione fra spiriti, interamente mentale. Ma anche con Milena egli mostrò la sua indecisione nei confronti di ciò che praticamente comporta la relazione con una donna. Lei, che era sposata, superando le sue riserve lo cercava, ma lui, pur amandola e soffrendo disperatamente, le parlava di inquietudini e perplessità che gli impedivano di incontrarla, come se avesse paura di legarsi effettivamente. Fino a che l’amore poi, come accade, non scemò. La sua vera natura ebbe ancora una volta la meglio, i lancieri non gli permisero di raggiungere neppure Milena.
Parlandole della propria condizione, le scrisse: «[…] io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che soltanto in queste ossa può essere vissuto. In fondo non è forse altro che quella paura, della quale si è parlato tante volte, ma paura estesa a tutte le cose, paura delle cose più grandi come delle più piccole, paura, convulsa paura di pronunciare una parola. È vero che forse questa paura non è soltanto paura, ma anche nostalgia di qualche cosa, e questo, più di tutto, è ciò che suscita paura». Eccoli i lancieri, sono queste parole, qui sono rappresentati fuor di metafora.
L’insegnamento nascosto tra le righe del frammento che qui si è riportato, banale o profondo che sia, potrebbe essere questo: l’amore può forse tutto, ma non può cambiare una persona. Velle non discitur.