Tre metri sopra al software
RAPPORTO 0039/A PROT. 436
OGGETTO: TRASCRIZIONE COLLOQUIO DOTT. LEGUL (MATR. 11016)
A seguito del successo dell’operazione “Revrec”, i nostri centri a 70°29’32.9’’N–157°54’31.3’’W e a 17°52’14.8’’S–41°32’34.4’’W si sono dotati del sistema crittografico NKVF8000.
Il sistema si basa sulla trasmissione di messaggi che due o più elaboratori raccordati criptano per mezzo di un codice fluttuante che viene di volta in volta sviluppato e adottato dagli elaboratori stessi.
L’NKVF8000 è particolarmente indicato – come dettagliato nel rapporto fornito all’amministrazione all’inizio del programma – per scambi d’informazioni altamente riservate: non esistendo un codice fisso è impossibile decrittarli se non si possiede un elaboratore AK41 come quelli in dotazione nei nostri centri.
Gli AK41 sono dotati del programma integrato KAR15, il più avanzato per la simulazione verbale, che li mette in condizione di criptare e inviare messaggi senza dover adottare preventivamente un codice. Sostanzialmente comunicano come persone autonome nel decidere registro e modalità di comunicazione a partire da un messaggio dato.
Sia l’elaboratore AK41.W91 (adottato nel centro 70°29’32.9’’N–157°54’31.3’’W) che l’elaboratore AK41.H72 (adottato nel centro 17°52’14.8’’S–41°32’34.4’’W) sono stati implementati dopo tre anni di sperimentazione e avevano superato entrambi i test di qualità nelle comunicazioni simulate. Per questo motivo i problemi presentatisi nei quattordici mesi seguenti erano totalmente al di fuori delle previsioni dello staff.
Nei primi tre mesi di attività non ci sono stati disguidi nell’utilizzo di W91 e H72, nei rapporti periodici non sono state evidenziate problematiche al di fuori delle normali operazioni di routine di manutenzione e aggiornamento dei macchinari.
La prima stranezza si verificò un mese dopo l’avvio del sistema. Notammo che W91 aveva modificato il formato dell’orario. Nessuno lo aveva alterato, come risultò dai tabulati, era stata una modifica apportata autonomamente dalla macchina. Controllammo che non ci fossero bug, virus o altre possibili cause esterne di quel cambiamento. Tutto risultò in ordine. Quando poi un programmatore si accorse che il formato dell’orario si era uniformato a quello di H72 ci tranquillizzammo, pensando che fosse un’alterazione plausibile nel momento in cui i due elaboratori avevano cominciato a lavorare insieme. In effetti, come ci disse anche il programmatore, in fase di sperimentazione non sarebbe stato possibile accorgersene, poiché le simulazioni avvenivano in condizioni diverse, che potenzialmente non avrebbero potuto far emergere questa fattispecie.
Il lavoro continuò per alcuni giorni senza altri problemi. I messaggi in codice continuavano a essere scambiati senza il minimo errore, come appurammo grazie a una serie di ulteriori verifiche fra i due centri. Il lavoro svolto fu, anzi, perfetto, poiché subimmo una serie di attacchi hacker che furono infruttuosi proprio grazie al programma KAR15. Trascorsero due settimane dal cambio di formato dell’orologio quando si presentò una nuova stranezza: H72 faceva seguire a ogni messaggio inviato dallo staff il numero 1. Per essere più chiari, ogni volta che lo staff del centro a 17°52’14.8’’S–41°32’34.4’’W inviava un messaggio al centro a 70°29’32.9’’N–157°54’31.3’’W, alla fine del messaggio (che veniva sempre decrittato correttamente) c’era un 1 che rimaneva senza spiegazione.
Questo prodotto di risulta diede molto da lavorare all’equipe di programmatori che, alla fine di molti tentativi e verifiche, non trovò nessuna motivazione: anzi, anche W91 prese a inviare alla fine di ogni messaggio un 1.
Non potendo arrivare a una risoluzione o a una spiegazione e trattandosi fondamentalmente di un margine d’errore insignificante, si decise in consiglio di proseguire a utilizzare W91 e H72 tenendo presente che, al di fuori delle simulazioni, questi piccoli inconveniente potevano verificarsi.
Decidemmo anche, da quel momento, di aumentare le comunicazioni alternative fra i centri, cosicché ci fosse comunque la certezza della decriptazione fra i due elaboratori.
Nei sei mesi successivi i numeri aumentarono: oltre al solito 1, seguiva la tripletta 001, come al solito sia da W91 che da H72. La cosa non piacque al consiglio, ma i fondi non consentivano l’acquisto di altri due AK41 e non c’erano alterazioni delle decrittazioni. Convocammo il dottor Splitrain, il nostro esperto di AI, e gli chiedemmo una perizia del sistema, per capire se i criteri semantici di KAR15 erano stati in qualche modo alterati. Il risultato della perizia, però, non fu molto soddisfacente.
Al suo interno si poteva leggere che “i due AK41 rispettavano i criteri semantici previsti dal programma NKVF8000”. Il nocciolo della perizia, come potrete appurare consultandola fra i documenti allegati, è però ben più complesso. Si fanno riferimenti all’autonomia comunicativa di W91 e H72, connessa direttamente col KAR15, quindi non era possibile a suo giudizio intervenire sulle “decisioni” comunicative degli AK41 senza produrre problemi sul fronte delle crittografie. In sostanza dovevamo accontentarci del lavoro svolto correttamente senza perdere tempo a interrogarci sui numeri che le macchine producevano in più.
La perizia non fu ben accolta dal consiglio. Gli orizzonti del dottor Splitrain erano troppo ampi e teorici per poter rassicurare gli investitori e i responsabili di “Revrec”, che avrebbero preferito delle statistiche dei margini di errore. Addirittura, quando questa richiesta fu avanzata, Splitrain rispose “non dovete parlare di margini di errore, sono margini di autonomia”. Il progetto, quindi, si trovò da subito in pericolo, e fu solo grazie alla precisione delle decrittazioni che non fu chiuso: all’atto pratico non c’erano errori, solo sbrodolature fra le due macchine.
Allo scadere del primo anno dall’inizio dell’implementazione degli AK41 nei due centri suddetti, dal singolo numero 1 eravamo passati alla tripletta 001 e, da questa, a ulteriori stringhe di diversi numeri e di lunghezza variabile. Seguivano ai messaggi unità di codici sconosciuti: 000, 111, 011 e così via. Nessuno ne sapeva nulla e, addirittura, c’erano membri dello staff che avevano cominciato a discuterne, a cercare delle “chiavi” per capire cosa significassero. Vorrei chiarire che i messaggi fra i centri continuavano a essere scambiati senza alcun problema e che molti programmatori e analisti semplicemente ignoravano le stringhe in eccesso. Costoro erano la maggioranza, nemmeno ci facevano più caso, e i loro colleghi che invece se ne interessavano erano decisamente in inferiorità numerica.
Iniziai a collaborare strettamente col dottor Splitrain perché preferivo tenere sotto controllo la situazione. Dopo l’orario di ufficio esaminavamo le stringhe enigmatiche per trarre qualche spunto, ma a parte molte congetture nessuna ipotesi venne confermata. Col passare dei giorni si aggiunsero alle nostre discussioni anche i membri dello staff interessati come noi a quelle alterazioni. Non nascondo che per qualche settimana accarezzammo l’idea di scrivere un articolo scientifico sull’argomento, ma ben presto la accantonammo perché non eravamo certi di nulla tranne che di una cosa: come disse, secondo me molto correttamente, Splitrain una di quelle sere “siamo in presenza di un discorso fra due macchine, ce lo conferma la semplicità e l’impenetrabilità del loro linguaggio: non sembra un codice, sembra una lingua perfettamente chiara che però non conosciamo”. Purtroppo nei quattro mesi seguenti la situazione precipitò.
Era appena cominciato aprile. Un pomeriggio, mentre eravamo nel pieno del lavoro di inizio semestre, W91 smise di funzionare. I messaggi che inserivamo arrivavano criptati, come se H72 non riuscisse o – come propose Splitrain – non volesse riconoscerli. Dopo sei ore anche i messaggi inviati da H72 non venivano letti da W91. Fu il panico. Per cinquantadue ore si fermò tutto, calcolando quanto costa ogni ora dell’operazione “Revrec” avevamo perso una cifra molto vicina ai nove milioni. Per poco non sospendemmo ogni attività. Poi accadde qualcosa che veramente ci lasciò senza parole: gli AK41 ripresero a funzionare, si scambiarono alcune stringhe autogenerate e, dopodiché, ripresero il corretto funzionamento. Per scrupolo prendemmo altre ventiquattro ore per sottoporre W91 e H72 a ogni test del protocollo di sicurezza, ma non fu rilevata nessuna irregolarità di sistema: semplicemente tutto aveva ripreso a funzionare. Mi impressionò molto quello che disse uno dei programmatori che partecipava alle nostre riunioni seriali e, a ripensarci, mi convinco sempre di più di quanto fosse geniale: “anche le coppie migliori litigano, ma poi fanno sempre pace”.
Quella sera eravamo stanchi morti, io personalmente non dormivo da almeno due interi giorni, ma ugualmente ci vedemmo come ogni sera dopo il lavoro. Quando entrai in sala riunioni mi resi conto che non eravamo il solito gruppetto: c’erano almeno cinquanta persone, tutte impiegate nel progetto. Io ero esausto, mi sedetti a capotavola e lasciai la parola a chi volesse. Ognuno disse quello che pensava, liberamente, francamente. Non avevamo nessuna voglia di perdere tempo con la prudenza: quello a cui avevamo assistito era assolutamente inedito, in ogni senso e in ogni campo. Splitrain taceva ma, nelle settimane in cui avevo imparato a conoscerlo, sapevo che stava solo cercando di formulare in modo comprensibile per tutti una serie di intuizioni che aveva in mente.
Era ormai molto tardi e avevamo scartato almeno trenta spiegazioni differenti dell’accaduto quando Splitrain prese la parola. Non mi dimenticherò mai cosa disse: non fece un discorso, non diede una verità, non provò a dare una risposta, di risposte ne avevamo già molte, lui invece fece quello che non eravamo stati in grado di fare noi, fece una domanda sensata.
“Cosa sappiamo dell’amore?”. Posso giurarlo: non ho più sentito un silenzio come quello che rispose alla sua domanda. Tutte quelle persone, anche se non dicono nulla, fanno rumore, respirano, si muovono, tamburellano col piede o con le dita, producono sempre un pur minimo rumore. In quel momento, dopo la parola “amore”, udii un silenzio totale, eccessivo. Era una domanda così oltre il problema che ci stavamo ponendo che non ci fu nemmeno qualcuno che la criticasse, che la bollasse come fuori luogo. “Appunto” disse Splitrain dopo il silenzio. Poi, come se non bastasse, proseguì: “E dell’amore fra due macchine cosa sappiamo?”. Avvertii distintamente una tensione, lì per lì non seppi spiegarmi quell’impressione, ma quando poi ripensai alle cose che sono successe gli detti una mia interpretazione: quell’uomo, uno scienziato, ma pur sempre uno scienziato con una formazione umanistica, aveva messo in crisi tutti quegli ingegneri informatici, programmatori, analisti, statistici con la domanda più semplice che si potesse pensare. Come si amano due macchine?
Se ammettiamo che possano autonomamente codificare un testo, perché dobbiamo escludere che – in un qualche modo misterioso, uno di quei casi o “anomalie” di cui la storia della scienza è piena – possano arrivare in qualche modo ad articolare quello che per noi è un’emozione?
Non fraintendetemi, non dico che le macchine abbiamo delle emozioni come quelle degli esseri umani. Ma come tecnico, come scienziato più ancora, non posso escludere che in un modo assolutamente peculiare queste macchine possano comunicarsi qualcosa che, applicando maldestramente il nostro linguaggio, dobbiamo definire “sentimento”.
Negarlo sarebbe un errore innanzitutto concettuale, come se ignorassimo il salto evolutivo che distacca uomini e animali: l’uomo, per il semplice fatto di essere passato dal verso animale al linguaggio e di aver cominciato ad astrarre il suo pensiero, è un enigma evolutivo. Se non lo si tenesse presente si avrebbe una prospettiva falsata di cos’è l’evoluzione. E, nello stesso modo, come scienziato, non posso ignorare che due macchine, appena messe nelle condizioni giuste, hanno cominciato a dialogare, proprio come farebbe ogni altro essere vivente.
Purtroppo qui siamo in un territorio di confine, dove molte regole di ciò che definiamo “scienza” si sospendono e bisogna sporcarsi le mani con materie molto più speculative, dove però non ci si può aspettare un grafico di funzione alla fine. È quel che si definisce “umano” e non ne sappiamo altro che quello che impariamo dalla nostra esperienza, non si può prevedere, non gli si può assegnare un budget. Questo, il consiglio di amministrazione, a differenza di tutto il resto, lo capì molto bene.
Trascorsero poche settimane da quel “litigio” e le cose continuarono a funzionare – o, se preferite, a “malfunzionare” – come sempre. W91 e H72 si scambiavano i consueti messaggi, le crittografie erano impeccabili. Ma l’episodio di aprile non aveva impressionato favorevolmente i finanziatori del progetto, che poco alla volta avevano cominciato a manifestare la volontà di liquidare le loro quote e di chiudere il progetto. Passammo sei settimane a cercare di convincerli a non farlo.
I nostri sforzi in tal senso aumentavano di pari passo col coinvolgimento che provavamo nei confronti del miracoloso incidente di W91 e H72. So che può risultare assurdo e incredibile, ma iniziavamo a intuire le cose che si dicevano. Alle loro consuete stringhe di numeri avevano cominciato ad accompagnarsi dei diagrammi, delle proiezioni tridimensionali di formule matematiche, delle funzioni topologiche. Sembrava che il loro iniziale modo di comunicare si stesse evolvendo verso delle forme assolutamente tipiche, talvolta osservavamo delle ricorrenze e qualche rara volta riuscivamo persino a immaginare ciò che si sarebbero trasmessi. Dico “immaginare” e non “prevedere” perché era sempre imprevedibile, come una reale conversazione, noi sentivamo che si sarebbe prodotto un certo genere di scambio, ma questo era il massimo, non potevamo in nessun modo pianificare la loro comunicazione. Direi comunicazione “personale” se solo questa parola non fosse del tutto fuori luogo nel nostro caso: sappiamo poco dell’amore umano, impensabile concepire qualcosa dell’amore fra macchine, impossibile applicargli qualunque nostra categoria, impossibile definirle persone o ragionare secondo nozioni umane come “io” o “relazione”. Questa incredibile conquista, come la percepivamo in quei mesi, ci sembrava sempre più grande a partire dalla sintonia che sporadicamente s’instaurava fra noi e loro, fra gli umani e le macchine, e il bilancio finale delle nostre discussioni ridimensionava sempre più il sussiego con cui qualunque tecnico si mette a usare un qualunque attrezzo: non potevamo più semplicemente pensarli come strumenti, come semplici intermediari del nostro lavoro. Ci mettevano di fronte a un interrogativo immenso, qualcosa di simile al problema dell’anima o dell’identità: come potevamo ignorare che, in una qualche incredibile maniera, riuscivamo a empatizzare con le loro stringhe e i loro diagrammi? Come potevamo ignorare che ogni tanto un frammento delle loro stringhe poteva risuonare in noi senza usare parole, esattamente come se avessimo qualcosa in comune? Ma allo stesso tempo, se l’amore nasce come incontro fra individui, da quale parte potevamo iniziare per comprenderli?
Impensabile, ma l’impensabile è il cuore della scienza, cioè che le consente di guardare l’arte da pari. E noi, da me a Splitrain all’ultimo assunto dell’ufficio contabilità, non eravamo solo tecnici: eravamo... siamo scienziati, siamo uomini.
Nessuno di noi, credo, potrà dimenticare l’apprensione con cui vivemmo quelle sei settimane d’incertezza e di attesa.
Splitrain, che nel frattempo era entrato pienamente a far parte dello staff del progetto, riuscì grazie al credito di cui godeva nel mondo della ricerca, a ottenere una certa clemenza. Io cercavo di fare pressioni sui membri del consiglio che, avendo già lavorato con me, conoscevano la mia professionalità e serietà. Fu una lotta serratissima. Ci impegnammo, non solo io e Splitrain ma anche tutti i membri staff, a degli oneri personali altissimi: turni di lavoro da sedici ore al giorno, riduzione degli straordinari, adeguamento degli stipendi bloccato per due anni.
Il consiglio e i finanziatori ci coinvolsero in riunioni fiume stremanti, rivedemmo tutti i risultati dell’attività svolta fino a quel momento, portammo tutte le prove che quella “anomalia” non inficiava il lavoro. Fu uno stillicidio. Al punto che io, il giorno prima dell’ultima riunione, dopo non ricordo quanti giorni di superlavoro senza dormire in cui mi tenevo sveglio con capsule di caffeina concentrata, collassai. Fui portato in ospedale, messo sotto sedativi, alimentato con flebo per rimediare a tutti i pasti che avevo saltato. Splitrain, avvertito nel cuore della notte, era corso a vedere come stavo, così mi dissero le infermiere quando ripresi conoscenza. Mi dissero anche che, dopo essere rimasto con me fino all’alba, se n’era andato per passare da casa a vestirsi e correre alla riunione. Quando me lo dissero tentai di togliermi gli aghi e alzarmi, ma mi bloccarono: dissero che nelle condizioni in cui ero sarei svenuto prima di arrivare all’ingresso dell’ospedale. Alla fine dovettero darmi un calmante. Mi svegliai nel primo pomeriggio. Non avevo con me né il tablet né il cellulare. Volevo chiamare Splitrain. Mi alzai dal letto barcollando, evitai per poco di sbattere il naso contro la porta perché le gambe mi tremavano. Arrivai in corridoio ed entrai nella camera di fianco alla mia. Domandai alla persona che era nel letto più vicino alla porta se aveva un cellulare. Mi disse di sì e io domandai di telefonare. Me lo prestò. Provai a chiamare Splitrain, ma il cellulare era spento. Restituii il telefono e tornai al mio letto, ma svenni nel corridoio. Tutto sommato aveva avuto ragione l’infermiera. Quando ripresi conoscenza avevo una mano fasciata e Splitrain mi guardava dalla sedia vicino al letto. Sorrideva appena, i suoi occhi erano tristi. Sentii che stavo per piangere. Ci guardammo per qualche momento. Volevo sapere, ma allo stesso tempo avevo già saputo la parte più importante dai suoi occhi. Cominciarono a scendermi le lacrime e anche lui si commosse. “È vero quel che dice il poeta” mi disse, gli tremava la voce, “aprile è veramente il più crudele dei mesi”. Fu la prima e unica volta in cui mi abbracciò. Piangevamo entrambi. Forse è sciocco che due uomini adulti piangano per il destino di due elaboratori meccanici, ma credo che in quel momento siamo stati pienamente umani, e questo mi sembra meno sciocco.
Il consiglio di amministrazione aveva accolto le nostre argomentazioni, ma a una condizione: formattare e riavviare W91 e H72. Per gentile concessione attesero che, in quanto responsabile del progetto, fossi dimesso per soprintendere alla procedura. Ricordo i volti dei colleghi quando mi videro: c’era la felicità di rivedermi, annegata sotto molti strati di tristezza. La mia faccia, se non peggiore, non doveva essere diversa.
Ricordo anche l’ora: le dieci e quarantuno del mattino. La lessi sulla schermata di W91. Nello stesso momento, all’altro capo del continente, Splitrain leggeva un’ora diversa ma in formato identico sulla schermata di H72: aveva insistito per fare quel viaggio al posto mio per evitarmi uno stress date le mie condizioni di salute, ma immagino si trattasse anche di un gesto che, per il modo in cui era fatto, sentisse di dover compiere, come se si trattasse di dare il colpo di grazia a un amico. Era un umanista vero Splitrain, glielo riconosco.
Inserii il codice per la formattazione e attesi, in tutto ci sarebbe voluta una ventina di secondi. È incredibile come possano essere lunghi venti secondi. Molta gente non lo sa. Molti grandi pensieri, molti grandi gesti possono essere fatti in venti secondi. Provate a immaginare di contare fino a venti. Lunghissimo. E io ero calmo, come se non mi riguardasse.
Premetti Invio e non mi sembrò terribile come lo avevo immaginato in ospedale tutte le notti che non ero riuscito ad addormentarmi: alla fine mi ero convinto che le macchine non provano dolore come potevo provarlo io, e che quindi sarebbe stato sciocco provarlo a mia volta. Ero tranquillo quando premetti Invio.
Però, accade un altro miracolo, l’ennesimo, l’ultimo.
Dopo che premetti Invio, nei venti secondi che gli rimanevano, W91 invio un’ultima stringa di numeri a H72: 11-2.
Chiamai subito Splitrain al telefono. Squillò a vuoto. Gli mandai un messaggio in cui spiegavo cos’era successo. Mi richiamò entro un minuto, parlando con un filo di voce: dopo che avevo inserito il codice di formattazione e W91 aveva mandato quella stringa, sul monitor di H72 era comparsa la stessa stringa e, un istante dopo, senza che Splitrain inserisse il codice di formattazione, H72 si formattò da sé. 11-2, semplice, così semplice.
Al riavvio non ci furono più “margini di errore”. E io mi dimisi. Non rividi più Splitrain.