Tutto il nero della notte

Inutile dilungarsi in note biografiche, dettagli o curiosità per riempire tempo e spazio, la morte di Jeanne Moreau trova in queste parole affastellate, solo la commozione di un’elegia molto istintiva, la dichiarazione d’amore urgente quanto vana, di un ammiratore, come moltissimi altri rimasto imbambolato dal fascino dell’attrice e cantante parigina. E adesso come facciamo? verrebbe da dire, nonostante il divario generazionale, cercando nel cordoglio collettivo dei cinefili, una forma qualsiasi di complicità; quella di una plateale resa alla bellezza, fattasi ricordo e patrimonio privato di riferimenti estetici; quell’incanto che divenne seduzione senza sforzo alcuno, quindi manualistica ad uso femminile, utile o deleteria per chissà quante emulatrici. Ora che se n’è andata, lo specchietto retrovisore riflette tutto il nero della notte, mentre la vettura sulla quale siamo seduti procede a folle velocità, verso l’artificiosità degli effetti speciali e delle dive di plastica: altri miraggi, ma brutti e stolidi. Così il commiato si fa freddo dato per coccodrilli, sicché ci si rende conto con maggiore lucidità di quanta bellezza sia andata irreparabilmente perduta. Negli uomini, nelle donne, nelle cose, nei luoghi. Parigi certo, quella degli anni ’50 - ’60 del secolo scorso, quella dell’atmosfera di magici lumi, ancora artistica e letteraria; quella di un “manierismo” urbano che si tradusse in pose, rituali, abbigliamento, canzoni, recite. Difatti, nonostante la lunga carriera internazionale, Jeanne Moreau resta indissolubilmente legata a certi cafè, giardini interni, salotti, boulevard, a quel bianco e nero intenso, con lucide autovetture bombate sfreccianti nella notte, a quei suoi abitini borghesi elegantissimi, alle emancipatorie sigarette.

Come in Ascenseur pour l'échaffaud (1958) e Le Feu follet (1963) ad esempio. Alla regia c’è Louis Malle, con protagonista maschile l’inarrivabile per stile Maurice Ronet. Due capolavori indubbiamente estetizzanti, nei quali si combinano alla perfezione certi esistenzialismi tipicamente francesi, suggestioni noir, indolenze Nouvelle Vague, maledettismi decadenti. Soprattutto Fuoco Fatuo, tratto da un romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, s’attarda accidioso nel fiele della vita, nel letamaio delle ipocrisie sociali, ma con guardaroba e mobilio d’alta società. Esclusivismo, sempre sull’orlo del baratro però, fino al suo dischiudersi. Poi Lei, che già fa la parte di Jeanne Moreau, anzi crea con due smorfie sublimi un codice inedito, relegando – grazie a espressioni e gestualità originali, in quanto apparentemente non recitate - tutto quello che verrà dopo in mestiere e versatilità. Quel broncio enigmatico, l’espressione lievemente distaccata e insoddisfatta, talune noncuranze, pieghe verso il basso della bocca carnosa, che conferivano ai sorrisi un’adorabile malizia. Capricci trattenuti e consapevolezza d’essere ammirata, ma come fingendo distrazioni o amnesie, forse pure scocciature. L’attrice, mai relegata al ruolo di bambola, incarnava una bellezza nuova, forse proprio perché lontana da qualsivoglia stereotipo. Dicotomie ad uso celluloide: la bionda (o rossa) e la mora, la nordica e la mediterranea, l’algida e la passionale, l’eterea e la maggiorata, la seduttrice e la sciocchina, la troia e la pudica. A quale categoria poteva mai appartenere Jeanne Moreau? Sfuggevole, per l’appunto indefinibile dagli oziosi strumenti della semplificazione divulgativa. Jeanne Moreau è Jeanne Moreau.

Si rivedano anche La notte di Michelangelo Antonioni, con Marcello Mastroianni e Mariangela Melato, e il più noto Jules & Jim, di François Truffaut, come polarità estreme delle doti recitative della Moreau. Nero pece il primo, con un latente senso di abbandono - l’attrice dimessa è qui in condotta quasi vedovale, Ofelia che s’inabissa nella città - in una Milano ancora molto sironiana; ironico e al contempo amaro il secondo, tragico triangolo amoroso dove tenerezza e crudeltà si mescolano in una logorante ricerca di appagamento. La protagonista Catherine, perfettamente resa da Moreau, è archetipo femminino ancestrale e vezzosa manipolatrice moderna, strategia seduttiva che gioca il sedotto per l’accrescimento del proprio piacere, o vanità, fino alla consunzione d’ogni cosa. "Hai voluto inventare l'amore, ma senza un minimo di umiltà, solo con l'egoismo", le viene rimproverato non senza ragione, palesando così la cattiveria dietro smorfie ammiccanti, nel teatrino sentimentale. Ma nonostante la parte così ambigua – a qualsiasi altra seduttrice “gatta morta” di tal fatta, verrebbe spontaneo rispondere: ma fottiti! – Jeanne Moreau riesce a non farsi detestare, grazie a qualcosa che non si spiega, a quello che i sintetisti definirebbero Fascino. Sarà stato forse quello sguardo, così stranamente percepito come sincero e in fondo dolente; sarà stata la bellezza “a latere”, stropicciata, di quelle che vorresti saperne di più. Chissà. Resta, come ricordo ultimo e perfetto epitaffio, il titolo di una canzone che cantò in Querelle de Brest, di Fassbinder, già cinquantenne: “Each man kills the thing he loves”. Lei lo sapeva, conosceva bene quei tormenti, tanto da renderli leggeri anche nell’inquietudine di un siparietto per marinai omosessuali. All’ammiratore, invece, è concessa l’ignoranza. Bastano applausi e fiori. Bastano i ricordi.

 

 

02-08-2017 | 18:19