Un attore al di sopra di ogni sospetto

Chissà cosa avrebbe pensato Gian Maria Volonté nel vedere Matteo Renzi formalmente erede di Antonio Gramsci. Tuttavia, e sempre ipoteticamente, altrettanta sorpresa avrebbe provato il padre di Volonté, fascista repubblichino, comandante della Brigata Nera di Chivasso, processato dai Partigiani per aver ordinato delle fucilazioni, e morto subito dopo la Guerra, nel saperlo comunista militante, costantemente schierato in lotte politiche, per i diritti civili e persino espulso dal Partito Comunista per un “eccesso di militanza” nel favorire la fuga dall’Italia dell'amico Oreste Scalzone, ricercato dalla polizia.

Volonté non ebbe una giovinezza facile, dovette abbandonare prematuramente gli studi a quattordici anni, dopo un’infanzia povera passata con la madre. Lavorò in Francia come raccoglitore di frutta, ritornò in Italia a sedici anni per lavorare come guardarobiere in una compagnia teatrale, non per via di una prevedibile vocazione, ma per il bisogno di guadagnarsi da vivere. Cose che rafforzano velocemente.

Come attore possedeva una personalità molto marcata, prevaleva molto spesso e inevitabilmente sia sulla sceneggiatura sia sulla regia. Ma, al contempo, aveva la dote molto rara di mimetizzarsi con tutti i ruoli che impersonava: li “indossava”, li esplorava e li arricchiva immancabilmente. Era uno  di quegli attori sostanzialmente inconciliabili con l’accento stereotipato dalle scuole di dizione che avrebbero prevalso negli anni sul “mestiere”; era tutt’altra cosa. L’uso della voce, delle sue inflessioni, di un timbro vocale inconfondibile, erano quelle di uno strumento musicale in mano ad un grande interprete, con una gestione dell’intensità e un senso del ritmo precisissimi.

Gian Maria Volonté era tutt’altro che un indifferente: è stato un “attore impegnato”, in un’accezione che oggi vorrebbe forse spiegata ex novo a chi se ne fosse ricavato un’idea dal cinema più recente. Per lavorare in un film in cui credeva, Actas de Marusia: storia di un massacro, rinunciò sia a Il padrino sia a Novecento, e non servirebbe aggiungere altro per spiegare a quanto abbia rinunciato in termini di guadagni e notorietà internazionale. L’impegno come comunista fu una componente fondamentale nella sua vita.

Probabilmente il suo ruolo più riuscito, su cui val la pena soffermarsi perché è forse la summa della sua arte cinematografica, è quello di capo della Squadra Omicidi in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri. Un personaggio di una "mediocrità complessa"", molto strutturata, una sorta di commistione dei caratteri del commissario Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda e l’allora molto attuale commissario Calabresi, ruolo in cui la grandezza di Volonté deflagra in ogni scena, in ogni frase. Con un ben dosato accento siciliano, dà forma a un vero e proprio emblema del burocrate italiano: sbrigativo e sgarbato, concessivo ma mai gentile coi sottoposti quanto solerte e servile coi superiori, goffamente virile con l’amante, pronto nel descrivere persone e rievocare fatti con la precisione acritica e meccanica di un verbale di polizia, telegrafico su orari e indirizzi; tanto avviluppato nell’aura autoritaria del gergo burocratico del poliziotto da usarlo nei momenti più intimi, a rinforzo della propria virilità debole e artefatta. Indimenticabile il passo deciso, da padrone, per i corridoi della questura, con le mascelle strette e gli occhi a fessura, ritto, pomposo nel sentirsi temuto e riverito dagli impiegati.

Nel film si percepisce costantemente la calura estiva patita sotto il suo completo scuro – con il prezioso dettaglio delle goccioline di sudore sopra il labbro –, la sensazione di stanchezza fisica, di sonnolenza pomeridiana degli uffici che si materializza con quello sbuffare fiacco a guance semigonfie e le palpebre abbassate. Altro ruolo grandioso, ancora in un film di Elio Petri, La classe operaia va in Paradiso: quello del tornitore campione di velocità e record-man del cottimo, detestato dai compagni di lavoro, che scopre la propria coscienza di classe solo dopo aver perso un dito per un attimo di distrazione al tornio.

Se il Cittadino è sempre dalla parte del potere, qui il protagonista è un vinto, uno sconfitto, deluso da tutto e da tutti. L’accento popolare milanese, le frasi in dialetto sono venate di un’amarezza profonda, di rabbia impotente, disorientata, di disperazione e solitudine tristemente vissute in una Milano umida, tetra, cinica. In Sacco e Vanzetti, di Mino Roli, nella parte di Nicola Sacco, film testimone della vicenda dei due militanti anarchici italiani giustiziati in America, commuove per la dignità e la compostezza – oggi remote come mai prima – dell’impegno politico. Nella scena del processo, quando dichiara il proprio credo di anarchico italiano, una comparsa in secondo piano, nei panni di un poliziotto, piange sul set ascoltandolo.

Un altro film politico interessante, seppure piuttosto didascalico e di minor spessore, è Il caso Mattei. Il protagonista è il nobile servitore dello Stato, ex partigiano, impegnato in una gigantesca quanto  vana campagna politica per dare all’Italia l’autonomia energetica dalle grandi compagnie petrolifere americane. È un Volonté diverso dai primi due menzionati, necessariamente più vicino alla figura storica di Enrico Mattei, che comunque realizza con la stessa capacità attoriale, ma meno esuberante, più trattenuto, “sacrificato” dalla parte.

Sarebbe lungo ricordare tutti i ruoli riusciti di Volonté, in una carriera che dal 1960 ha spaziato dalla “commedia all’italiana” agli “spaghetti western” al cinema impegnato. Molto cinema, tanto amore per il mestiere.

Volonté era sempre unico perché non era calligrafico, uno dei tanti. Aveva un volto troppo ambiguo, troppo indecifrabile per essere risucchiato da questa o quella parte, un’espressione sfuggevole prodotta da uno sguardo fondamentalmente malinconico e una specie di sorriso sempre accennato che pareva smentirlo. È inevitabile che un attore così prevalga su sceneggiatori e registi, o, al contrario, li aiuti a creare grandi opere qualora ne sfruttino appieno la singolarità.

Per questa ambiguità, ad esempio, un film non indimenticabile come il Giordano Bruno di Lattuada funziona perfettamente perché illustra il personaggio come forse nessuno probabilmente avrebbe potuto. Peccato per quelli che non lo hanno capito, potuto capire, forzandolo in ruoli che lo smorzavano, nella cocciuta pretesa che qualcosa scritto nella sceneggiatura dovesse ammaestrare l’attore anziché dargli respiro, spazio, possibilità. 

Vent’anni anni dopo la sua morte, pur sforzandosi di amare il presente, si deve ripensare con ottimismo alla parola “nostalgia”, che dovrebbe essere risignificata, nobilitata. La nostalgia per attori non-allevati, per quelli che come Volonté riempivano un ruolo anziché circoscriverlo, a causa di quel timore odierno (quando non è superbia) che genera l’ignoranza, è un sentimento costruttivo. C’è solo da guadagnarci nel conservare la nostalgia quando è memoria di un mestiere fatto bene, conosciuto, pensato e tramandato. Solo così non si diventa cronicamente ed inutilmente nostalgici.

 

 

07-12-2014 | 15:32