Il gesto magico
Nelle prime settimane del suo soggiorno presso il sanatorio Berghof di Davos, poi tramutatosi in degenza settennale, Hans Castorp, il ventitreenne protagonista de La montagna magica, compì un gesto bellissimo. Durante una cena nella sala da pranzo della clinica, notò che, qualche tavolo più in là, Clawdia Chauchat – la giovane signora russa divenuta in breve tempo il centro dei suoi pensieri – era costretta a farsi schermo con la mano mentre parlava con un vicino di posto perché dalle finestre proveniva un raggio di sole crepuscolare che le feriva gli occhi. Al che Castorp, racconta Thomas Mann: «Esamina la situazione, osserva il percorso del raggio, stabilisce il punto dal quale entra […]. Presa la decisione, senza dire una parola, si alza, attraversa di sbieco fra una tavola e l’altra tutta la sala, col tovagliolo in mano, sovrappone esattamente le tende color crema, si assicura con un’occhiata al di sopra della spalla che il raggio è intercettato e la Chauchat liberata… e fingendo molta indifferenza torna indietro». Un gesto perfetto nella sua semplicità, al contempo fine, galante, sorprendente, ornato perfino della giusta dose di teatralità… benché a dire il vero vi traspaia in filigrana un eccesso di sollecitudine che potrebbe anche essere preso per servilismo, magari interessato, e macchiarne dunque l’inappuntabile eleganza. Ma è segno di ingenuità presumere negli esseri umani la purezza incontaminata, poiché sono stati creati con la polvere del suolo, cioè con il fango, oltre che con il vivificante respiro divino (Gen. 2, 7), la duplicità della loro natura è quindi costitutiva e non può che rivelarsi, sotto forma di ambivalenza, in ogni loro impulso… Fortunatamente! si potrebbe aggiungere, perché tanto la santità quanto, da un punto di vista estetico, la perfezione priva di nèi, mancando di tensioni interne, sono così insopportabilmente noiose…
Avvertita la cessazione del fastidio, madame Chauchat si meravigliò a tal punto del gesto compiuto dallo strano giovane con il quale non aveva ancora mai scambiato una parola, da rivolgergli addirittura un sorriso quando questi tornò al proprio tavolo… un evento inaudito, a cui Castorp, sbigottito, raccogliendo le forze interiori, rispose con un inchino. Da allora, fra l’incantevole creatura dalla fisionomia asiatica e il timido amburghese, nacque una labile relazione di sguardi vicendevoli che tuttavia, a causa delle esitazioni di quest’ultimo, non accennava a mutarsi in una forma di conoscenza più diretta. Dopo mesi di elusività, ci volle l’ebbrezza dovuta a qualche bicchierino di troppo – durante i festeggiamenti del Carnevale – perché Castorp si liberasse finalmente della sua irresolutezza e osasse senza troppe inibizioni rivolgere la parola alla donna che nel suo intelletto aveva posto sul piedistallo dell’inaccessibilità, per l’occasione adorna di un grazioso tricorno di carta che forse la rendeva più terrena. Seduti ai margini della saletta in cui avveniva la festicciola, che ormai volgeva al termine, i due iniziarono una lunga conversazione nel corso della quale lui, con disinvolta loquacità, le comunicò in termini appassionati la dismisura degli struggenti sentimenti che la chimerica bellezza della sua figura suscitava, oltre ogni comprensione, nel suo spirito, bellezza che gli ricordava nebulosamente i tratti di una involuta fascinazione adolescenziale che aveva lasciato nella sua memoria la sensazione dello sgomento. E dopo averle parlato di sogni, di morte, di malattia, ed essersi prodotto in una poetica celebrazione della perfezione anatomica del corpo umano, giunse, inginocchiato al suo cospetto, ad occhi chiusi, al culmine del suo climax declamatorio, a pronunciare la famosa supplica: «Oh, Dio mio, lasciami sentire l’odore della pelle della tua rotula, sotto la quale l’ingegnosa capsula articolare secerne il suo olio scivoloso! Lasciami toccare devotamente con la bocca l’Arteria femoralis che batte sulla parte anteriore della tua coscia per dividersi, più in basso, nelle due arterie della tibia! Lasciami respirare l’esalazione dei tuoi pori e sondare la tua peluria, o immagine umana d’acqua e albumina, destinata all’anatomia della tomba, e lasciami morire, con le mie labbra sulle tue». Fu Mann questa volta a dover chiudere le tende – del silenzio – affinché sguardi inopportuni non si posassero sul prosieguo di quella notte, che affidò con signorilità ad una dolce ellissi narrativa. Tuttavia l’amor, ch’a nullo amato amar perdona, fece sì che l’ispirata preghiera fisiologica venisse esaudita con larghezza… anche se non alla lettera, perché Castorp restò vivo e vegeto ancora a lungo e poté assistere, già l’indomani, alla dolorosa partenza della Chauchat dal Berghof e, dopo anni di attesa trascorsi nella contemplazione della sua radiografia toracica, di cui lei gli aveva fatto dono, al suo ritorno al fianco di un energico olandese, purtroppo.
La volontà di dare sollievo alla Chauchat potrebbe tuttavia non essere stata la vera ragione del gesto delle tende di Castorp. Forse tale proposito era soltanto il modo in cui affiorava alla coscienza e si rendeva pensabile un’esigenza chiusa, velata, ineffabile, connessa con il sentire dei primordi, che urgeva inespressa nelle sue viscere. Analogamente, mutatis mutandis, le indecifrabili vibrazioni sonore che vengono comunicate a un piano metallico, si trasformano, nella sabbia cosparsa sulla sua superficie, in stupefacenti immagini floreali o geometriche (le celebri figure di Chladni). Come detto, accostando le tende Castorp liberò madame Chauchat dal fastidio arrecatole dal raggio del tramonto, tuttavia, per raggiungere tale scopo, dovette necessariamente impedire al sole di illuminarla e, perciò, almeno idealmente, dovette porla nell’ombra, oscurarla, come se in modo recondito sapesse, al di là delle sue consapevoli intenzioni, che all’oggetto della sua patologica adorazione non si addiceva la radiosità di ciò che è investito dalla luce, ma, al contrario, l’ambiguità del buio. Qualcosa in Castorp dovette sentire che alla fonte dei pensieri assillanti e incontrastabili che sotto forma di attrazione fatale si agitavano nella sua mente, i quali avevano origine negli abissi del suo essere, nelle regioni torbide delle profondità inconsce e degli istinti primigeni, spettava l’opacità, la notte, la tenebra, di cui le cose incomprensibili ed ignote sono rivestite. Nutrendo presentimenti simili, all’alba della civiltà, i sacerdoti dell’antichissimo tempio di Afrodite, a Pafo, sull’isola di Cipro, veneravano la dea di provenienza fenicia e mesopotamica che presiedeva alle corrispondenze cosmiche, all’impulso alla fecondazione e al miracolo della generazione, nella veste di un’amorfa ed enigmatica pietra nera, come a significare la natura occulta del suo dominio. Gli oscuri sacerdoti riverivano la trascendenza dell’amore e delle sue implicazioni in un numinoso masso vulcanico color dell’ossidiana, assimilabile a un tetraedro, che a loro avviso rappresentava convenientemente il mistero sepolto nelle fibre più nascoste degli esseri, per effetto del quale, dalle posidonie all’uomo, soggiacendo a un comandamento muto e imperioso, essi sono indotti a moltiplicarsi secondo le specie. Tra gli uomini, tale dettame che, beffandosi della razionalità, li costringe a scegliersi inspiegabilmente nella moltitudine, ad aspirare l’uno all’altro in preda allo squilibrio e ad unirsi poi, febbricitanti, al fine – almeno negli intenti divini – della prodigiosa apparizione di nuove creature, assume il volto del cosiddetto innamoramento, il quale, come sostiene Schopenhauer, non è altro che la maschera con cui, agli occhi della conoscenza, si manifesta l’imperativo biologico della trasmissione del principio vitale nell’esistenza futura. E Castorp, in un recesso della sua psiche, dovette intuire la sovrumanità di ciò che madame Chauchat gli ispirava, e dovette avvertire l’originaria soggezione nei confronti dell’impenetrabile arcano delle affinità che il suo idolo russo, a cui si confaceva l’ombra come ad Afrodite l’informe parvenza nera, simboleggiava e concretizzava. Un enigma che, suo malgrado, con il gesto delicato di sovrapporre i lembi di due tende gialline, egli ribadì poeticamente.