Camus che odiava la Samba
Il viaggio di Albert Camus in America Latina è la storia dell'incontro con una terra che non riuscì a toccargli il cuore. Una permanenza di due mesi che gli causò una profonda stanchezza e quasi un desiderio di annullamento che egli stesso espresse in una lettera scritta al suo ritorno: “…ho preso parte a una sorta di rodeo estenuante che non mi ha dato tregua. Adesso aspiro solo a dormire e a tacere…”.
L'idea di questo viaggio maturò nel contesto post-bellico. La Francia desiderava ristabilire le relazioni con l'America del Sud e Camus era l'ambasciatore perfetto: rappresentante della nuova letteratura francese, era già noto oltreoceano, i suoi romanzi Lo Straniero e La Peste, erano stati da poco tradotti in Argentina e Il Malinteso andava in scena nei teatri di Santiago del Cile.
Era dunque uno scrittore già celebre e affermato l'uomo che si imbarcò a Marsiglia nel giugno del 1949 per un giro di conferenze che lo avrebbe portato in Brasile, Uruguay, Cile e Argentina. L'esordio del diario di viaggio dice già molto: “Giornata estenuante. R. ed io guidiamo a tutta velocità per raggiungere in tempo Marsiglia […] caldo torrido e un vento che taglia la faccia. Anche la natura è ostile”. Come è facile intuire da queste poche righe Camus era partito controvoglia, benché il viaggio fosse programmato ormai da mesi il breve entusiasmo iniziale si era esaurito e lo scrittore provava un sottile disagio, quasi un malessere fisico, all'idea di lasciare il Vecchio Continente per un lungo viaggio verso una terra ignota. Così, quando il piroscafo superò Gibilterra scrisse: “…ci allontaniamo dalle accigliate coste spagnole e lasciamo definitivamente l'Europa. Continuo a guardare questa terra col cuore serrato... Solo durante lo scalo a Dakar si rinfrancò nel ritrovare sensazioni a lui care, quelle dell'Africa, dove era nato e aveva vissuto fino ai venticinque anni: … I neri possenti, mirabili di dignità ed eleganza nelle loro tuniche bianche, le donne, con vesti antiche dai colori vivaci, l'odore di arachidi e sterco, la polvere e il caldo. Solo poche ore, ma ritrovo subito della mia Africa, odore di miseria e di abbandono, odore vergine e forte, di cui conosco la seduzione”. Questo fu l'ultimo contatto con la terraferma, da quel momento lo scrittore si trovò solo di fronte all'immensità dell'oceano e all'angoscia che lo tormentava, giunto alla latitudine di Pernambuco annotava nel suo taccuino: “nubi tragiche ci vengono incontro dal continente – foriere di una terra terrificante”.
Dopo due settimane di navigazione, il 15 luglio 1949, la nave approdò alla costa brasiliana e qui ebbe inizio quello che Camus definì “il calvario”, quella girandola di interviste, conferenze, ricevimenti che lo provò duramente nel corpo e nello spirito.
Gli appunti del diario rendono conto degli impegni pressanti a cui lo scrittore era costretto: sono frammentari, rapidi, e si soffermano soprattutto sulle descrizioni del paesaggio. Un paesaggio che lo riempiva di stupore: il tempo era sempre meraviglioso e Rio era una città dai colori suntuosi, le cui spiagge, immense e bianche, si allungavano verso un mare di smeraldo. Recife era dominata dal bianco degli edifici coloniali che contrastavano col rosso della terra riarsa dal sole e Bahia possedeva spiagge simili a un immenso deserto. Ma con l'avanzare del viaggio la meraviglia venne meno e lasciò il posto alla stanchezza, cosi che a San Paolo e Porto Alegre furono riservate poche e frettolose parole. Anche l'architettura barocca, che all'inizio lo aveva affascinato, divenne stucchevole ai suoi occhi: “Questo Barocco si ripete molto e alla fine è la sola cosa da vedere in questo paese”.
Ma pensare che Camus si sia limitato a questo sguardo superficiale non renderebbe giustizia a uno dei più grandi scrittori del Novecento. Infatti, ogni volta che era possibile, sfuggiva alla girandola degli impegni mondani per conoscere l'umanità di un luogo di cui voleva di scoprire i significati più reconditi. Cercava di frequentare la comunità nera, affascinato dai loro riti e dalla loro vitalità, a Caxias assistette a una macumba che gli fece provare un senso di angoscia e soffocamento, ma non si stancò di guardare i neri danzare e cantare nei locali e nelle feste popolari, dove le tradizioni africane si fondevano al Cattolicesimo, dando vita a grotteschi balletti di maschere e figure totemiche. La frequentazione dei quartieri popolari lo avvicinò alla grande povertà del proletariato urbano, ma ciò che soprattutto lo colpì fu il contrasto osceno tra la miseria e l'arroganza del lusso che si trovavano fianco a fianco, ignorandosi reciprocamente: “Il contrasto più impressionante è quello tra il lusso dei grandi alberghi e dei grattacieli e le favelas, distanti spesso poche centinaia di metri, sorta di bidonville abbarbicate al fianco delle colline, senza acqua, né luce, in cui vive una popolazione miserabile … mai lusso e miseria mi sono apparsi tanto insolentemente frammisti”.
Un altro aspetto della società che lo indignò, fino a fargli provare ripugnanza, fu l'indifferenza verso la morte violenta. Nel traffico folle di Rio lo scrittore fu testimone di almeno un paio di incidenti mortali, uno dei quali lo raggelò: “Un povero anziano, nero, immessosi malamente in un viale rutilante di luci viene travolto a tutta velocità da un autobus che lo sbalza a dieci metri come una palla da tennis, gli gira intorno a scappa … ma l'urto avrebbe ucciso un bue. Vengo poi a sapere che qualcuno lo coprirà con un lenzuolo su cui il sangue andrà spandendosi, sarà accesa qualche candela e la circolazione continuerà intorno a lui, solo un po' allargata”.
Poco a poco prendeva forma la ragione del disagio di Camus: una profonda estraneità al luogo in cui si trovava, una cultura troppo distante, una società in cui non si riconosceva, lingue sconosciute. Tutti elementi che gli fecero vivere questo viaggio come una sorta di esilio impregnato di nostalgia, e ovunque cercava tracce di spazi a lui familiari: “Le stradine chiuse al traffico, allegramente illuminate da insegne multicolori, autentiche oasi di pace, sono vicine alle grandi arterie rombanti di traffico. Come se, tra la Concorde, la Madeleine e l'Avenue de l'Opéra, la rue Saint-Honoré fosse vietata alle automobili ... Ma pur non mancando scorci parigini, Camus disperava di potersi sentire a casa. … Su questa terra smisurata che ha la tristezza dei grandi spazi la vita è rasoterra e ci vorrebbero anni per integrarsi. Avrei voglia di passare degli anni in Brasile? No”.
Curiosamente, nel corso dell'intero viaggio, lo scrittore fu febbricitante e le sue condizioni di salute peggiorarono progressivamente, quasi una somatizzazione del disagio vissuto nei due mesi americani. Non potendo affrontare un'altra traversata di due settimane, rientrò in aereo a Parigi, dove gli diagnosticarono una ricaduta di tubercolosi, malattia di cui soffriva fin dagli anni universitari. Di questa esperienza, densa di angoscia, di fatica, rimangono rarissime tracce nell'opera successiva di Camus e non poteva essere altrimenti, considerando che verso la fine dell'avventura aveva annotato con cinico distacco: “Passiamo le Ande nella notte – non si vede nulla – il che è simbolico di questo viaggio”.