Cappuccetto Rosso deve morire /27
In macchina guidava piano, per evitare alla ferita fastidiosi sobbalzi.
«Ha voglia di sentire una storia?».
«Certo, Commissario».
«Ero in servizio in Puglia, forse più di quindici anni fa, ma probabilmente sbaglio. Magari saranno stati dieci. Insomma, capita che entrando in un trullo per comprare dei taralli trovammo la cassiera agonizzare dietro al bancone. L’amico che era con me, nonostante le avesse prestato i primi soccorsi e avesse chiamato l’ambulanza per farla portare all’ospedale, non fu in grado di salvarle la vita: la coltellata che le era stata data era molto profonda e aveva perduto troppo sangue. Stringeva fra le mani uno scontrino, illeggibile a causa del sangue. Mi chinai su di lei per udire le sue ultime, eventuali, parole. Mi sussurrò qualcosa, ma non riuscii a capire: aveva parlato in dialetto e io il dialetto non lo conosco».
«Arrivò la polizia?».
«Certo, ma ebbi il tempo di fare un piccolo giretto nella bottega per capire che cosa fosse successo. Non c’erano segni di lotta, anzi, tutto era in ordine. Usando un fazzoletto aprii anche il registratore di cassa per vedere se fosse stata rapinata. Nel registratore non c’erano soldi, controllai nello scomparto nascosto dove solitamente vengono messe le banconote di grosso taglio e ci trovai un migliaio di euro. Qualsiasi ladro li avrebbe presi: perché questo no?».
«Forse voleva delle banconote più smerciabili».
«Fu proprio quello che pensai io, ma poi riflettei che gli spacciatori non fanno sottigliezze quando si tratta di pagare una dose. Quella violenza, cieca e incontrollata, non era stata opera di un professionista: mi ricordava moltissimo le rapine che fanno i tossicodipendenti. No, si trattava di qualcuno che aveva sottratto in fretta e furia i soldi che aveva trovato solo per far sembrare l’omicidio una rapina. A quel punto la mia attenzione si appuntò sullo scontrino insanguinato. Cercai di avvicinarmi quanto più possibile rischiando di macchiarmi. Mi accorsi che si trattava di una donna molto giovane, ma invecchiata precocemente per via del lavoro. Chiamai il mio amico, che era anche uno specializzando di ginecologia, e gli domandai se quella donna era davvero incinta o era solo una mia impressione. Lui si sporse dal bancone, controllò e poi mi fece cenno di sì. A quel punto feci un pensiero, un pensiero che poteva essere molto plausibile. Ritornai allo scontrino, notai che era per l’acquisto di un coltello di quelli che somigliano ai vecchi stiletti. Sa, quelli che vengono comprati come ricordino… A quel punto perché non immaginare che l’assassino o l’assassina si fosse servito dello stiletto che aveva appena acquistato?».
L’espressione di Roberta Giano era interessata e perplessa: non riusciva a capire il senso di quel racconto e in qualche misura lo temeva.
«Quando arrivò la polizia» continuò il Commissario «spiegai ciò che avevo visto e dissi anche che secondo me si trattava di un assassinio e poteva essere il fidanzato della donna. Spiegai che secondo me il fidanzato voleva che non tenesse il bambino e lei doveva aver detto che invece l’avrebbe partorito. Allora, fingendo di essere convinto, per non farla gridare o scappar via, doveva aver acquistato quell’arma. Nel momento stesso in cui la donna stava porgendogli lo scontrino, l’avrà afferrata per il braccio e conficcato la lama nel collo. A quel punto…».
«Ma come faceva a dire che si trattava proprio di uno stiletto come quello che ha detto lei?».
«Perché era la cosa più probabile. Non c’erano altri coltelli in giro».
«Sullo scontrino stava proprio scritto che si trattava di uno stiletto?».
«Beh, no. Era scritto che si trattava di un coltello. Ma ha tanta importanza?».
«Se fosse successa a me una cosa simile, io avrei avvertito il pericolo».
«Allora sarebbe stata più intelligente di quella poveretta».
«Secondo me si trattava di un coltello per dolci».
«E perché?» chiese il Commissario con una punta di divertimento.
«Perché avrebbe potuto usare la scusa di voler tagliare la torta di nozze con quel coltello. Poteva farlo passare per un “bel gesto”, una di quelle cose solenni che si fanno per dare importanza a certi momenti. A quel punto nemmeno io mi sarei spaventata. Non le pare?».
Accidenti se gli pareva. Era un’ottima teoria, decisamente di prima categoria.
«In fin dei conti potrebbe avere ragione, ma d’altro canto l’arma non è mai stata trovata».
«Come mai?».
«Mentre si stava cercando di capire cosa fare, ci arrivò una chiamata: Tamborra Gianluca si era costituito e aveva confessato di aver ucciso la donna a cui stavamo di fronte. Più tardi sapemmo che l’arma non era stata recuperata perché il giovane l’aveva gettata e non rammentava più il posto. Era in evidente stato di choc. Fu processato e condannato e io non ebbi neppure un trafiletto sulla Gazzetta».
Rimasero un po’ in silenzio. Poi, poco prima di arrivare al Villaggio, il Commissario si accese un mezzo sigaro e tirò due boccate.
«Mi dica quando le dà fastidio».
«Non si preoccupi, anche mio marito fuma il sigaro».
Non disse altro e lo guardò fissamente.
«Lo so» ammise il Commissario.
«Che cosa sa?» gli chiese con un sorriso che non voleva esserlo.
«L’ha capito pure lei, vero?».
«Non era difficile da capire».
«Mica per tutti».
«Come se n’è accorta?».
«Prima di tutto perché se compro un coltello per uccidere qualcuno, non sono sotto choc dopo, e soprattutto non mi costituisco».
«L’ho pensato anche io, ma solo quando ci tornai su qualche tempo dopo».
«Inoltre stride un po’ che questa persona sotto choc abbia poi la presenza di spirito di buttare via l’arma del delitto».
«Infatti. Anche secondo me il ragazzo copriva qualcuno. O forse, poiché era sotto choc, era presente quando l’assassino ha ucciso. Infatti le sue impronte furono trovate dappertutto, ma non quelle di una seconda persona. Ne trovarono una perfino sullo scontrino insanguinato. A quel punto la mia congettura mi sembrò confermata».
«E come ha fatto a giustificarsi queste incongruenze?»
«Mi dissi che il ragazzo sperava in una seminfermità fingendo uno choc».
«Secondo lei chi stava nascondendo?».
«Non lo so. Ricordo che l’esame del dna confermò che si trattava proprio del figlio di Tamborra. Ma comunque, dopo tutto questo tempo, chi vuole che se ne ricordi o se ne interessi?».
«Già, l’importante è che la gente pensi che si è fatta giustizia».
Quella osservazione sarcastica ferì il Commissario. Frenò davanti al Villaggio. Lei si alzò, lui osservò i suoi seni dondolare via e tirò una boccata profonda al sigaro. Rammentò una frase d’un libro che non ricordava.
«Lei era in ospedale quando suo fratello s’impiccò, vero?» esclamò a tradimento il Commissario.
«Mi fa piacere di esserle rimasta in mente».
«Non si dia troppa importanza. Me ne sono ricordato solo ora».
«Anche lei si dia meno importanza: se non avesse così elegantemente ricostruito le circostanze del nostro incontro anche io non mi ricorderei di lei».
«Ricordo ancora con che occhi mi guardò».
«Non è piacevole dover riconoscere il cadavere del proprio fratello».
«Mi spiace».
«E di che? Di aver lasciato in galera un innocente per ambizione? Che sarà mai!», aveva le braccia conserte sotto i seni.
Il Commissario si rimproverò per essere così preso da quelle tette anziché dalla discussione, ma ormai aveva fatto da tempo ammenda con se stesso per quell’ambizione cretina che aveva avuto tanti anni prima. Si era punito, aveva fatto penitenza: non aveva più fatto nulla per la carriera da allora.