Cappuccetto Rosso deve morire /29
12.30
I congressisti defluirono dalla sala convegni. Uno sciame di medici e manager li avvolse, con un chiacchiericcio inestricabile.
Oltre al malessere del personale, il Commissario osservò uno strano comportamento pure negli ospiti: tutti i manager stavano facendo il possibile per prolungare la propria permanenza al Villaggio. Il Commissario li vedeva andare alla reception e lì, organizzati in gruppetti di quattro o cinque per receptionist, si accanivano garbatamente per ottenere la sospirata proroga. A che scopo non l’aveva ancora capito, ma ovviamente lo immaginava.
Perché rimanere nel luogo dove è morto qualcuno se non per saperne di più, se non per avere qualche informazione utile? Utile per chi, poi?
Ognuno di loro aveva prolungato di almeno due settimane il proprio soggiorno e il Commissario era venuto informalmente a sapere (un po’ dal loro vociare, un po’ dall’Ispettore, alzatosi in avanscoperta e appena tornato, ma subito sparito nuovamente in cerca d’informazioni) che quasi tutte quelle proroghe erano spesate dalle aziende. Quindi, l’interesse a rimanere era “altrove” e non fra quelle persone?
“Difficilmente qualcuno rimane in un posto se non vuole: uno stratagemma per andarsene c’è sempre” pensò, sentendo il bisogno di ricollocare quell’interesse al di qua del Villaggio.
Si stupì di aver pensato una simile frase: lui era sempre stato l’equanimità in persona quando si era trattato di un’indagine. Cosa diamine gli aveva preso? Scrollò le spalle e il sigaro. “Ma sì, verrà fuori che sono suicidi e che ho fatto domande a vanvera, ma poco male”. Fu indulgente con se stesso in quell’occasione, come se un sé più cinico e permissivo gli avesse concesso d’intrattenersi con un passatempo destinato a concludersi in breve.
Sì. Sì, era sempre stato così in quel caso: voleva giocare all’investigatore che trova l’assassino. Anche se poi si sarebbe rivelato un banale suicidio, voleva dare per assiomatico che assassino e movente fossero lì, fra i muri imbiancati a calce del Villaggio. Come un bel romanzo all’inglese al cui epilogo ci fosse la ricostruzione dell’omicidio alla presenza di tutti i sospettati.
Se il responsabile di tutto era nel Villaggio, le cose potevano disporsi in un certo modo: era un omicidio (se di omicidio si trattava) troppo ben dissimulato per non essere stato architettato con cura tempo prima, per cui c’era stata per il colpevole o i colpevoli la possibilità di saperne abbastanza per arrivare alla propria vittima inscenando un suicidio. Ciò valeva anche per il caso di Marinaro: cosa poteva essere accaduto nell’arco di quei pochi giorni per far decidere a qualcuno di ucciderlo? Evidentemente nulla, evidentemente anche quella era stata una decisione attentamente vagliata tempo prima di arrivare sull’isola. Perché, ammesso che si fosse trattato di una decisione estemporanea, e che quindi l’assassino di Marinaro avesse deciso di ucciderlo una volta arrivato al Villaggio, allora significava (e qui tornava la convinzione del Commissario che movente e assassino fossero nel Villaggio) che un traffico di qualche genere era stato il movente di quella morte ed era avvenuto in quelle ventiquattro ore.
E, sempre sulla base di queste congetture, perché non supporre che l’assassino fosse una persona che conosceva perfettamente il Villaggio, ossia uno degli aficionados? Uno che sapeva come muoversi, al punto da decidere di agire lì.
O, addirittura, cosa che avrebbe dannatamente complicato il tutto, uno dei “cortigiani”: qualcuno che faceva parte di una delle due categorie di persone che orbitavano presso il potere, cioè le donne di rappresentanza e gli assistenti.
Il Commissario aveva iniziato a notarli dopo una giornata di permanenza nel Villaggio. Si trattava di due sciami distinti, perfino audiovisivamente diversissimi e identificabili: le donne di rappresentanza sono sgargianti e quando parlano producono qualcosa di simile al rumore dell’acqua che va giù nello scarico del lavandino, gli assistenti sono uniformi cicale che trillano di sms e gracchiano chiamate e cianciano di mail.
La vita di chi collabora con un manager di una certa importanza può essere molto movimentata oppure insolitamente tranquilla.
L’assistente personale di un manager è come una lampreda attaccata a un cetaceo: vive nel trambusto in cui vive lui e subisce gli sbalzi dinamici a esso collegati. È come una lancetta, il manager, e il collaboratore attende che torni in posizione, che torni a riallinearsi con lui, da quella girandola impazzita che è. Un nulla che non è vuoto, ma riempito d’attesa.
Ecco cos’è la vita al seguito di un grande manager: o un continuo giro del mondo in ottanta secondi o un curioso limbo rassicurante come certe piccole e ingenue bugie che non funzionano mai.
Il Commissario iniziava a entrare meglio nella psicologia di quelle persone, dei dirigenti. Avevano prediletto, nella propria esistenza, i rapporti di lavoro, e l’avevano fatto per una ragione ben precisa: non dover polemizzare di continuo. Evitare la noia della discussione fra pari. Avere dei dipendenti è tranquillizzante, perché devono solo eseguire, senza fiatare. Mentre una moglie o un figlio rompono le scatole, una segretaria o un autista ricevono un ordine (per quanto garbatamente possa essere espresso) e lo eseguono. I manager si sono messi al riparo dalle inutili chiacchiere di una persona che spesso non sa quello che dice: inevitabile che, chi è convinto di avere ragione, prediliga i rapporti di lavoro a quelli paritari e informali. Come contropartita hanno il rischio: rischi in prima persona e devi rispondere a chi è sopra di te, più che in qualunque altra professione.
«Non viene a pranzo, Commissario?» gli domandò Labile salutandolo da lontano.
«Certo, sto aspettando l’Ispettore».
«Eccomi» rispose quello comparendogli alle spalle inatteso.
I tre uomini s’incamminarono insieme. Raggiunto un tavolo abbastanza in disparte e tranquillo, col piatto pieno davanti, iniziarono una conversazione che sapeva di già sentito: sostanzialmente si stavano confessando la stessa impressione di disgregazione e timore che avevano iniziato a provare appena svegli. Quando il Commissario raccontò a Labile della visita di Grandi, vide il manager incupirsi:
«Commissario, io lo so, se lei se ne va di qui succederà qualcosa di veramente brutto. C’è ancora un giorno di congresso. Io non so se ci rimango: queste persone cominciano a spaventarmi».
«Non è l’unico ad avere questa impressione. Purtroppo non ho neanche motivo, ufficialmente, di rimanere più a lungo. Spero di trovare qualcosa qui dentro» disse toccandosi la tasca dov’era il diario di Lagri.
«Cos’è?».
«Non me lo chieda per il momento. Se vuole ci possiamo vedere per un caffè verso le tre e ne riparliamo».
«Va bene, certo».
«Cosa ne pensa di Alberto Russo?».
«È molto ambizioso. Sempre tirato a lucido. Ha avuto qualche problema col gioco d’azzardo, ma quando si è reso conto che poteva essere un grosso limite per la carriera ha smesso. Non va con escort, non si droga».
«Ne è sicuro?».
«Abbiamo qualche conoscenza in comune. Penso che lo saprei se si drogasse o frequentasse abitualmente prostitute. Alla fine queste cose si sanno sempre. La riservatezza, quando hai tutti gli occhi addosso, te la puoi solo scordare».
«Scusi se m’intrometto, dottore, ma quando quella persona si accorgerà che sotto al mobile c’è rimasto solo lo scotch, come ci dovremo regolare?» esclamò l’Ispettore improvvisamente.
«È per questo che sarai la sua ombra».
Labile, che non aveva capito quello scambio, in qualche modo se ne sentì preoccupato, come se avesse rappresentato un codice per non rivelargli l’incombere di una tragedia. Ma si disse che erano solo sue suggestione e, siccome sapeva che non erano affari suoi, non fece domande.