Cappuccetto Rosso deve morire /30
14.00
Sdraiato sul letto, il Commissario si accese un sigaro lungo, vicino a sé aveva una penna e un taccuino. Appena posò gli occhi sulla prima riga, si rese conto che doveva essere la continuazione di un discorso iniziato altrove, forse su un altro quaderno o forse nella mente di Lagri. Iniziò a leggere.
Mercoledì 15 aprile 2009
...aveva forse quindici anni, i capelli rossi, ondulati; stava tutta incassata, coi seni quasi nascosti dalle braccia conserte, la mano destra serrata attorno al cellulare, mandava sms velocemente. A un certo punto tossì, di quella tosse gorgogliante dei bambini raffreddati, crepitante e tenerissima.
E me ne innamorai subito.
È stato così il nostro primo incontro. Un po’ lirico, come capita spesso all’inizio delle tragedie. Il problema è che nel mio mestiere è bene essere perfetti, non davvero – ovviamente – ma formalmente: puoi far quello che vuoi, l’importante è che non lo sappia nessuno.
Io, invece, non ho esitato a dirlo a tutti: l’ho sbattuto in faccia a questo mondo ridicolo di affaristi meschini che sniffano e vanno a puttane.
Il mio psicanalista me lo diceva sempre che sono un autodistruttivo, ma gli psicanalisti sono tutti inutili. Anni a studiare come funzionano le persone e poi non escono mai dal loro studio.
Io sapevo solo che non avevo niente da nascondere.
Probabilmente la storia non ha mai visto un solo uomo che non avesse niente da nascondere. In qualche misura siamo tutti un po’ colpevoli, un po’ umbratili. E anche a fare i corruschi non ci si guadagna nulla: probabilmente si starebbe meglio senza nasconder nulla a nessuno. Insomma, non serve a nulla stare a nascondere ogni passione, ogni amore, solo perché altrimenti rischi qualcosa. È un’idiozia questo perbenismo. E pure se Clinton si è fatto la Monica e ha pure mentito per non farsi rompere le scatole da quel mastino della moglie... quale mai dovrebbe essere il problema?
Giulia era morbida, bianca, con un giardino di lentiggini che sembravano soffiate lì per caso come i semi di un soffione di melanina. Era ridente, gentile. Sognava come tutti gli adolescenti, correva con l’immaginazione. S’immaginava di quando ci saremmo sposati. È stato troppo facile, non tanto farmela, quanto innamorarmi di lei. Troppo semplice: quando hai quarant’anni e ti senti giovane fai le cose che avresti fatto a vent’anni, ma qualcosa è cambiato. Sei un adulto e quindi devi prendere il pacchetto completo: oneri e onori. Devi rinunciare a qualcosa. È il tuo ruolo sociale, cronologico, che te lo chiede.
Hai da una parte il desiderio, un desiderio tutto sommato innocente, che in passato sarebbe stato normalissimo; e dall’altra ci sono gli obblighi, il pregiudizio dei tuoi capi, quelli preoccupati che nessuno sappia. “Fai quello che vuoi, ma non lo far sapere”. È questa la loro piccola condizione. Se sei un dirigente e si viene a sapere che esci con una ragazzina poco meno che quindicenne allora puoi dire addio al tuo posto. Non è come il posto pubblico: nel privato è sufficiente che sul tuo pomposo biglietto da visita ci sia una macchiolina per dover fare la valigia.
Ma non è solo per la storia con Valeria che ce l’hanno con me. Sono anni che ci provano a buttarmi fuori, ma poi sanno che gli farei una causa infinita. Ora, finalmente, hanno la scusa perfetta: Marco Lagri si scopa una quindicenne, viene meno il legame di fiducia, non possiamo permettere a una persona del genere di rappresentarci. Ipocriti. Ma hanno ragione: una persona come me non può rappresentarli.
Lunedì 27 aprile 2009
Quanto vale il mio tempo? Quanto tempo vale la mia fatica?
La domanda è ingannevole. Beni tangibili e scambiabili per beni intangibili che non tornano più. Che significa valere? Che significa l’espressione “quanto vale”? Che significa valere e che concetto reca questa parola con sé?
Valere vuol dire avere valore, logico. Se il valore oggi ha significato principalmente economico, originariamente era un concetto legato alla salute – a quanto beneficio si traeva da qualcosa.
Ecco cos’è il valore: l’unità di misura del beneficio. E per beneficio dobbiamo immaginare quella panacea che, assunta, aiuta a sopportare tutte quelle imperfezioni che fanno della vita un giocattolo malandato (nella migliore delle ipotesi) o (più spesso) un disordinato inferno. Il beneficio, qualcuno, lo chiamerebbe lenitivo o addirittura felicità.
Dunque, quanto beneficio porta la mia fatica e quanto beneficio posso creare col mio tempo? Quanto posso migliorare la mia (e altrui) vita e in quanto tempo? Quanto e per quanto devo soffrire ancora per essere felice?
La domanda, oltre che probabilmente senza risposta, è anche complicatissima.
Val la pena di soffrire per la felicità o è forse meglio non soffrire e non avere felicità? Vivere senza gioia, ma pure senza dolore. In un dolce grigiore, in un’accogliente indolenza, in un utero d’assenza.
Quanto valgono la mia fatica e il mio dolore? Il mio tempo e la mia depressione?
È una domanda complessa perché non chiede qualcosa di presente e concreto. Riguarda la fine della vita, il bilancio di un’esistenza.
Quanto valgono i miei sforzi sul lavoro, quanto le contrattazioni, le ore spese, i sorrisi elargiti?
Oggi sono andato alla Ph.Arma. Ci sono andato a elemosinare un lavoro, qualcosa che non mi lasci completamente col culo per terra. Domani saprò se è meglio che mi ammazzi o se la società mi ha dato un’altra occasione.
Martedì 28 aprile 2009
La Ph.Arma mi ha preso. Il bello della vita: ricominciare. Alla Deltamed l’aria era diventata irrespirabile e la cosa più divertente è che basta cambiare lavoro per dimenticarsene.
lunedì 04 maggio 2009
È ufficiale, da oggi dipendo dalla Ph.Arma.
Mi hanno dato il primo incarico. Devo andare a un congresso in Sardegna. Si terrà in un Villaggio dell’Odm fra il 13 e il 16 giugno. Il 12 è previsto l’arrivo di tutti e il 13 e 14 c’è la presentazione dei lavori. Il congresso vero e proprio sarà solo il 15 e la chiusura, coi lavori conclusivi, il 16. Sostanzialmente regaleremo ai medici una bella vacanza in Sardegna.
Ci sarà anche Mario Antico: il mio lavoro consisterà nel fargli firmare un contratto esclusivo con la Ph.Arma. Sarà un lavoro difficile: è un avido, ma sa anche dire di no. E ha molto potere contrattuale. Difficilmente riuscirò a convincerlo con qualche puttana o con un po’ di migliaia di euro. Dovrò trovare un altro sistema.
Potrei puntare sui suoi scheletri: pare ne abbia una collezione nell’armadio. Magari, se trovo la persona giusta, potrei procurarmi qualcosa per scioglierlo e convincerlo a firmare. Per fortuna ho già un paio di nomi in mente, perché il tempo è davvero poco.
Martedì 26 maggio 2009
Oggi l’ho scampata bella.
Sono andato a trovare il mio vecchio amico Aldo. Lui è sempre informato, anche se ultimamente è un po’ fuori dal giro. Troppe magagne alla fine ti escludono anche se fai di tutto per evitarlo. È il problema di agire senza regole: l’unica regola diventa quella della nomea, di quello che si dice di te. Non contano i tuoi successi e il tuo curriculum: se sul tuo nome girano troppe voci c’è poco da fare, sei fuori.
Ieri l’ho chiamato. È stato contento di sentirmi. Mi ha detto che lo potevo andare a trovare stamattina, con comodo, magari poco prima di pranzo.
Ci siamo visti in un mercatino delle pulci. In mezzo alla calca. Una ressa incredibile per un semplice mercatino. Probabilmente quasi tutti erano lì per altri motivi. Era col suo nipotino: anche i figli di puttana hanno famiglia.
Non s’è fatto pagare molto. Mi doveva qualche favore, ma deve pur vivere. Mi ha spiegato che Antico, una quarantina d’anni fa, lavorava per un istituto di ricerca (la Pro.Do.&Co.) e che non si trattava proprio di un lavoro come un altro: facevano esperimenti abbastanza borderline, proprio sul filo dell’illegalità.
Ultimamente è stato scoperto che nella sede storica dell’Istituto, un palazzo del ‘600, c’era una botola murata. Si trattava, più che di una botola, di un ampio controsoffitto, ricavato quando erano stati fatti i primi lavori di restauro negli anni ‘60. Una delle grandi sale col plafone a volta era stata “appiattita”, il soffitto era stato tappato con un lavoro in muratura perfettamente orizzontale, per cui rimaneva vuota la parte curva. C’era una piccola apertura che dalla volta dava sulle scale di servizio: fu murata anche quella. Recentemente, durante dei lavori di ammodernamento, è stata ritrovata (quella botola non era segnalata da nessuna parte) e al suo interno è stato scoperto uno scheletro senza mani e senza testa. Nei suoi vestiti non c’era nemmeno un documento per identificarlo.
Però, a quanto pare, nella fodera della giacca erano nascosti alcuni fogli che riguardavano gli esperimenti della Pro.Do. e che se fossero saltati fuori prima avrebbero fatto scoppiare uno scandalo incredibile.
Stando a quanto mi ha detto Aldo, la Pro.Do. era in un giro dove mangiavano anche la CIA e il governo italiano di quegli anni. Insomma, una cosa grossa.
Mi ha detto di avere una cosa che prova inconfutabilmente che Antico sapeva della botola. “Se quelle carte venivano fuori lui era rovinato. Immagina di essere ricattato: che faresti? Pagare non conviene, altrimenti si trasforma in un pozzo senza fondo e sei rovinato comunque. Antico, che è uno senza scrupoli, potrebbe benissimo aver attirato il ricattatore in ufficio, magari nell’ora di chiusura. Gli ha fatto intendere che lo avrebbe pagato e invece poi lo ha accoppato. Siccome non poteva uscire di lì col cadavere s’è ricordato di quella botola, che magari il giorno dopo avrebbero dovuto chiudere. Si sarà detto che bastava metterlo lì: nessuno ci sarebbe andato a guardare in quel budello buio ed entro la mattina sarebbe stato dimenticato. Doveva solo renderlo irriconoscibile per sicurezza e il gioco era fatto”. Questa era l’idea di Aldo, ma per chi lo conosce sa che non si tratta mai di fantasie, quanto piuttosto di vere e proprie capacità medianiche. Se ha detto così è perché ne ha la certezza.
La polizia ora è in possesso di quelle carte misteriose e fra Antico e lo scheletro non c’è nessuna relazione. L’unica relazione è la cosa che Aldo ha promesso di darmi. “Tranquillo: sventolagliela sotto il naso e ti firmerà pure le mutande” ha detto ridendo.
A quel punto è successo: un tale ha sbandato e con la macchina è finito proprio a un pelo da noi. Per fortuna mi sono mosso velocemente e mi sono scansato portandomi insieme Aldo e il bambino. Quella macchina ci avrebbe sicuramente schiacciati contro il muro. Credevo che fosse stato un incidente, un ubriaco o qualcuno che aveva avuto un colpo di sonno. Mi sono ricreduto subito: il tizio ha ingranato la retro ed è scappato, come se sapesse esattamente cosa faceva. Come se avesse bene in mente una sequenza di azioni da compiere. Io e Aldo ci siamo immediatamente scambiati un’occhiata, poi lui ha aggiunto: “Incidente o meno non è stato incidentale”. Sono della sua stessa opinione: probabilmente la Deltamed. O qualcuno che non voleva che io e Aldo c’incontrassimo.
La polizia è arrivata poco dopo, ma inutilmente: noi stavamo bene e nessuno sapeva cosa dire, tranne che il pirata della strada era fuggito. Mentre li vedevo che guardavano la strada, senza sapere che pesci prendere, mi è venuto un terribile senso di angoscia: se ricapita sono fottuto. Allora ho detto ad Aldo che forse la cosa migliore da fare per me è partire per la Sardegna col primo aereo di domani, tanto per rimanere un po’ fuori dalla circolazione. Lui mi ha risposto di non preoccuparmi, che mi avrebbe fatto avere una sorpresina.
Poco fa, mentre stavo chiudendo la valigia, il nipote di Aldo ha bussato alla porta. Mi ha dato una busta dicendomi che era da parte dello zio e una piccola civetta di terracotta: “È un portafortuna, da parte mia, grazie per oggi” mi ha detto. Anche se nipote di quel rinnegato, è cresciuto bene.
Nella busta c’era una fotografia: Antico da giovane davanti a una porta e, dietro di lui, una volta affrescata. Una bella prova.
Mercoledì 27 maggio 2009
Oggi c’è stata la vera sorpresa di Aldo.
Non appena sono arrivato al Villaggio ho disfatto la valigia e mi sono cambiato: siccome per sicurezza mi sono portato la foto nelle mutande, non ce la facevo più a sentirmela pizzicare sulle palle.
La mia seconda preoccupazione era dove nascondere la foto e ho pensato subito alla civetta. Come tutte le statuette di terracotta era cava all’interno. Ho provato a infilarci la foto arrotolata, ma qualcosa faceva resistenza. Allora ho infilato un dito e ho scoperto uno schedino di plastica. Non ci ho messo molto a capire che era il codice del software di Marchiosi.
Sicuramente ce l’ha messa Aldo, ma non dev’essere per me, altrimenti me l’avrebbe fatto sapere. Scommetto che mi ha usato come corriere incosapevole per qualcuno dei suoi sporchi traffici. E così mi ha trasformato in un bersaglio mobile che per giunta non sa nemmeno che rischi corre. Non è la prima volta che fa di questi scherzi ed è la volta buona di dargli una lezione.
Ho tolto dalla civetta lo schedino e ci ho messo la foto. Poi l’ho preso e l’ho nascosto in un calzino fra le tende. So già a chi venderlo così io mi becco i quattrini e al buon Aldo rimangono da dare le spiegazioni al suo compratore. Io ne esco pulito pulito e Aldo impara.
Detto questo devo solo godermi questa vacanza gentilmente offertami dalla Ph.Arma e finire di guardare questo vecchio sceneggiato di Albertazzi.
In tutto questo non so come rispondere al sms di Riccardo. È la prima volta che mi piace tanto un uomo. Ha un volto da attore, di quegli attori che è bellissimo ammirare, il cui volto produce ombre: la luce rimbalza sui loro somatici, sulle loro rughe e ogni scalfittura si allunga all’infinito e deglutisce ogni riverbero. Ogni volta che c’incontriamo, anche per caso, mi tratta con gentilezza, perfino con comprensione a volte. È l’unico che mi tratta con rispetto.
Del resto anche lui è uno che ha sofferto. Non oso immaginare cosa deve avergli fatto passare quella bigotta di sua madre. Mi ha raccontato che era perfino contenta di essere malata, anche se non poteva più muoversi non si sentiva svantaggiata. Anzi diceva che molti non hanno mai la possibilità in vita di scontare le loro colpe in modo evidente: possono solo temere la giustizia (ma io direi “la vendetta”) divina oltre il dolce cortile della morte. Lei, invece, immobilizzato dal suadente e massacrante abbraccio della distrofia poteva ammirarsi nell’espiazione più totale.
È incredibile come Riccardo sia riuscito a venirne fuori sano, senza i problemi mentali di sua madre. In realtà è solo narcisismo pensare che le punizioni ci giungano dai nostri torti, che l’universo si rivalga su di noi per il sovvertimento che abbiamo recato al suo ordine con le nostre malefatte; eppure la croce della penitenza è una sensazione bellissima che rimane ammantata di un’influenza tutta sua.
Giovedì 28 maggio 2009
Anche oggi ho mangiato pesante. Il ristorante di questo posto è un covo di assassini: cercano di uccidermi a colpi di colesterolo.
Quelli che mi conoscono dicono sempre che sono un ipocondriaco: curioso per uno che ci lavora con la salute. Non so cosa mi prende certe volte. È come mi rendessi conto improvvisamente di essere malato, vedo con chiarezza tutti i sintomi. Non oso immaginare cosa accadrà quando inizieranno a piovere medici da ogni parte qui: mi fermerò a ogni viso conosciuto come alla processione per chiedere che cosa possono significare tutti i sintomi che mi sento.
Per ora solo un grande mal di stomaco.
Oggi pomeriggio devo dormire. Prenderò un sonnifero, così potrò dormire ben bene fino a domattina, senza alzarmi di continuo perché mi sento male.
Venerdì 29 maggio 2009
Non so come sono arrivato in questo vicolo. Alla mia sinistra solo oscurità e non perdo nemmeno troppo tempo a scrutarla. Alla mia destra, seminascosta dalla prospettiva dell’angolo del muro, una camera da letto molto semplice, molto maltenuta, da studente fuorisede. Davanti a me Riccardo. Ha una maglietta nera o blu scuro a mezze maniche. Stiamo parlando, non so bene di cosa, sembra dei suoi problemi di cuore.
A un certo punto, mentre parlo io, lui mi fa una battuta provocante a sfondo omosessuale e io rispondo spiritosamente con spavalderia. Continuo a parlare e a un certo punto Riccardo mi tocca il pacco. Io lo ignoro, come se si trattasse di una spiritosaggine momentanea, e lui continua, come se si aspettasse una qualche reazione. Io continuo a parlare come se niente fosse, ma nel frattempo mi diventa duro.
Non ricordo bene cosa succede. Finiamo nella camera da letto attigua, io mi appoggio al comò frapponendo una distanza fra me e lui. Rimane seduto per terra, vicino ai piedi del letto. Mi racconta, mi pare di ricordare, che è omosessuale. Io lo avevo sempre scherzosamente definito così, ma solo per ridere, visto che aveva una ragazza. Ora mi conferma che è vero e che è innamorato di me. Io mi avvicino e ci baciamo, in piedi al centro della stanza. Ci buttiamo sul letto e continuiamo col petting e il palpeggiamento selvaggio.
Di scatto lo metto a pancia sotto, lui ride paciosamente, mi avvicino e gli sussurro “Vuoi sentire cosa sente una donna?”, glielo dico con un desiderio che è quasi rabbia. Lui annuisce e poggia la testa sul cuscino rilassatamente. Inizio a baciarlo sul collo, gli metto una mano nei pantaloni e gli massaggio le palle. Quindi gli abbasso i pantaloni e divarico bene le natiche. Ho il cazzo durissimo e mi avvicino al buco. Lo metto un poco dentro, lui geme. Mi piace fargli male in quel modo. Mi eccita. Gli infilo un dito, lo tolgo e ci metto il cazzo. Ogni movimento mi costa fatica, come se fossi legato o gravato di qualche peso. Ho anche la bocca asciutta, non riesco a sputargli sul buco per incularlo meglio. A questo punto gli esce dal buco una morsa metallica, come una pinza, con lucette colorate attorno.
Mi sveglio di soprassalto. Ansimante, spaesato, smanioso. Ho un’erezione dolorosa. Vorrei continuare a sognare, per continuare a sbatterlo, ma non ci riesco.
Mi giro e mi rigiro nel letto. Sono sconvolto dal sogno: è il primo sogno così violentemente omosessuale che mi capita di fare. L’ho stuprato.
Tutto questo l’ho sognato ieri pomeriggio.
M’interrogo sul suo significato. Per primo penso che è una normale pulsione: sono dominante da sempre, desidero la posizione di dominanza sugli altri per prendere il mio piacere. Non mi tocca la componente omosessuale: poteva anche essere una donna o un animale, sarebbe stato uguale. Forse, l’aver stuprato un uomo mi dà più gusto, perché è come se un leone sopraffacesse un altro leone e non una gazzella. La mia forza ha schiacciato un mio simile. Il possesso e la violenza possono cambiare soggetto, ma non il piacere che mi danno.
Non capisco il senso di quella pinza e non mi spiego perché proprio Riccardo.
Ho provato a mettere insieme i pezzi nella mia memoria.
Mercoledì sera ho visto quel vecchio sceneggiato con Albertazzi e mi ha ricordato alcuni pezzi di una sua biografia che avevo letto in una recensione che le avevano fatto: descrizioni pretenziose di rapporti omoerotici.
Poi, mercoledì notte, Riccardo mi ha mandato un sms in cui mi augurava la buonanotte e mi ricordava che prima o poi dovevamo andare a cena insieme. Riccardo talvolta mi sembra innamorato di me. Mi bacia, mi abbraccia e mi accarezza anche se sa che il contatto fisico mi dà fastidio. Eppure ha una ragazza dalle cui labbra pende come un bradipo. È un comportamento che non mi spiego e che in fondo mi piace: mi piace l’adorazione, mi piace la seduzione.
Sabato 30 maggio 2009
Oggi sono tornato sull’immagine della pinza con le luci intorno. A dargli un qualche significato ha contribuito la cucina del Villaggio: è così pesante da mettere in subbuglio il mio stomaco.
Talmente in subbuglio che ieri sera, mentre ero al bar, ho pensato che dovrei farmi una gastroscopia una volta a casa. Così mi sono ricordato che Riccardo ha fatto una gastroscopia: me ne sono ricordato subito dopo aver parlato con un medico di PSA, chiamandolo PSE. Ciò significa che le cose, nel mio cervello, inconsciamente, per un motivo o per l’altro, sono collegate.
Mi domando, però, se nel mio sogno sia proprio Riccardo l’obiettivo o se nelle sue sembianze si nasconda qualcun altro. I sogni sono imprevedibili.
Ho pensato che forse potrebbe essere Giacomo il vero protagonista, come se Riccardo non fosse che la versione femminile di Giacomo. In effetti, negli altri sogni omosessuale che mi è capitato di fare, Giacomo o era l’attivo o i nostri ruoli si alternavano.
Fino a poco fa sono rimasto nervoso ed elettrico, come posseduto dalla voglia di possessione. Era talmente dilaniante questa energia del desiderio da immobilizzarmi. Sono dovuto rimanere a letto finora per esorcizzare questa foia sbranatrice.
Le uniche deroghe da stamattina sono state pranzo e cena, così sfogarmi abbuffandomi.
Venerdì 05 giugno 2009
Oggi ho pensato che gli uomini navigati non possono dare un nome ai propri sentimenti.
Io, dal canto mio, sento che non posso dargli un nome perché le mie emozioni, ormai, sono tutte ugualmente annegate nella noia.
Probabilmente è questo: la noia. Ogni volta che faccio qualcosa, la faccio perché mi sto annoiando.
Talvolta mi sento felice e appagato, perfino divertito dalle cose che mi succedono, poi, improvvisamente, ecco la consapevolezza dell’inutilità di tutto quello che ho sott’occhio.
Non so, forse per colpa della vita che faccio, della vita che la società ti cuce addosso come un sudario con un sistema di etichette relative che aderiscono e cadono molto facilmente, ma mai per più di dieci secondi.
È possibile vivere senza etichette e non finire emarginati o dimenticati? È possibile essere liberi senza rimanere soli? È possibile dimostrare la propria debolezza senza essere catalogati come deboli?
Se qualcuno sapesse dei miei dolori di pancia per questo cibo, probabilmente penserebbero che come manager ho i giorni contati. Non ci si può permettere nessuna debolezza, nessun cedimento: insomma, si tratta della vera vita della giungla.
Quando sentono l’odore della tua paura o della tua stanchezza sei fregato.
Venerdì 12 giugno 2009
Come al solito, la cucina di questo posto mi fa fare sogni tremendi. Ho sognato che l’a.d. della Deltamed era un giudice e che io, non so bene perché, gli dicevo qualcosa come: «Vostro Onore, quando mi condannò mi disse: “Secondo me, dentro di lei, non c’è un briciolo di bontà”. Purtroppo, però, lei non è espressione della saggezza di pochi illuminati, bensì della stupidità generalizzata e diffusa della società. Lei è un membro dell’idiozia e della grettezza istituzionalizzata. Per questo io non le riconosco alcuna autorità». Non riesco più a stare dietro ai miei stessi sogni. Diventano continuamente più difficili. O forse sono io che non riesco ad accettarne la banalità.
Oggi sono arrivati tutti quanti. Stamattina mi sono visto con Marinaro. Ho pensato che vendergli il codice sarebbe stato un buon modo per ricambiare il favore che mi fece a Danzica, gliel’ho venduto a metà del prezzo di mercato, se non l’ha apprezzato è proprio un ingrato, ma conoscendolo sicuramente l’ha apprezzato.
Io, invece, non ho apprezzato la visita che mi ha fatto stasera Alberto Russo: è arrivato verso le dieci e mezza e mi ha tenuto a parlare per un quarto d’ora almeno, e ora non trovo più la civetta con la foto di Mario Antico davanti alla botola della Pro.Do.&Co. Sono sicuro che me l’ha rubata Russo. Non riesco a capire perché avrebbe dovuto farlo, a meno che non fosse lui il tizio in affari con Aldo.
Non appena mi passerà questo atroce mal di stomaco vado da lui e me la faccio ridare a suon di cazzotti. Per fortuna scrivere mi aiuta a distrarmi dal dolore.
Rimase qualche momento così, con l’ultima pagina del quaderno aperta davanti, a riflettere, succhiando quanto rimaneva del sigaro. Lambiccatissimo nei tornanti impervi di una ricostruzione: quel testo rappresentava un’autentica anamnesi del delitto. Per un po’ fu del tutto alienato, privo di qualsiasi connessione col mondo reale. Arrivò a concentrarsi, e a perdersi, a un livello tale da essere distratto e ricondotto a concretezza del rumore flebilissimo del suo respiro.
Chiamò l’Ispettore e gli disse di prendere il cellulare di Marinaro e di fargli sapere subito tutte le chiamate e i messaggi che aveva mandato e ricevuto. L’Ispettore gli fece presente che non l’aveva ancora fatto perché il cellulare era bloccato dal PIN, probabilmente alla Scientifica ci avrebbero messo uno o due giorni. Il Commissario perse la pazienza e urlò: «Porta quel cazzo di coso dove cazzo ti pare e portami quelle cazzo di chiamate entro le tre e mezza!». Per fortuna l’Ispettore era un uomo intelligente e sapeva che il Commissario era una persona ammodo a cui, come capita a tutti, succedeva di perdere le staffe. Gli assicurò che avrebbe fatto il possibile.
Chiusa la telefonata, il Commissario rimase in quella condizione fino alle tre meno cinque, quando si ricordò dell’appuntamento con Labile al bar.