Da giovani incendiari, da vecchi pure
Da giovane incendiario, da vecchio pompiere, sostiene la saggezza popolare non senza un fastidioso fatalismo implicito. Nel riepilogare le vicende artistiche di due giganti del ‘900, quali “il pictor optimus” Giorgio de Chirico e “la macchina attoriale” Carmelo Bene, questa pedante sentenza svela il suo punto debole, visto che in entrambi i casi si dovrebbe correggere così: da giovane incendiario, da vecchio Classico. Questo parallelismo si alimenta con la catalogazione sbrigativa, solo in parte giustificabile, che tuttora li riconduce alle rispettive avanguardie artistiche di riferimento. Surrealismo per il primo e teatro sperimentale per il secondo, ovvero le consuete etichette di comodo, senza le quali il giudizio pare incartarsi. Scrollarsi di dosso il vincolo d’appartenenza, per i due geniali solitari, coincise con quella maturazione che tuttora pare interessare meno al pubblico, rispetto all’emblematica fase iniziale. Ciò che qui preme sottolineare è come la deriva reazionaria, che riguardò sia l’uno che l’altro nonostante i diversi contesti, sia sfociata naturalmente in un atemporale classicismo.
C’è un elemento primigenio che andrebbe soppesato, prima di ogni altra considerazione, ovvero l’humus mediterraneo che, da Vòlo a Otranto, riconduce a profumi ellenici e a tensioni arabe, in una visione stratificata, mitica ed archetipale, della Storia. Due orienti simili, la Tessaglia ed il Salento, naturalmente più rivolti a Costantinopoli che a Roma: Da un lato il Palazzo Moresco, “denunciato dal salmastro, orientale come un riflesso sbiadito”, incipit contemplativo ed estetizzante di Nostra signora dei turchi di Bene, dall’altro La partenza degli Argonauti, uno dei primi dipinti (del 1909) di de Chirico, già intriso di quella nostalgia del mito, che l’artista di lì a poco porterà a far dialogare con i contesti urbani, creando quello straniamento modernista denominato Metafisica.
Schopenhauer e Nietzsche, quali rispettivi punti di riferimento filosofici, andranno a trasfigurare quell’antico spleen pagano in novecentesco adattamento nichilista, richiedente risposte nuove. L’esperienza dell’avanguardia, sia per de Chirico che per Bene, sarà occasione dapprima di sfida ai gusti decorativi imperanti – la décadence - poi di fondazione di un codice artistico personale, unico, imitato e sovente inarrivabile. Si ciancia di provocazione, di esibita posa egocentrica, riguardo ai due; ma l’equivoco surrealista e le bizze al Costanzo Show, non saranno altro che la superficie di uno specchio, occultante enigmi ed assenze. Disciplina applicata al genio, più che semplice capriccio anarchico, passando dall’Odissea di Omero all’Ulisse di Joyce, in un serrato confronto con il Pensiero che, paradossalmente, porterà a risultati letterari contorti, dal segno solipsistico. Ebdòmero (Giorgio de Chirico, Bompiani 1942) e ‘L mal de’ fiori (Carmelo Bene, Bompiani, 2000) non dissimili nella forma criptica, pur essendo formalmente il primo un romanzo ed il secondo un poema, risulteranno più attigui alla raffinata elucubrazione estetica che all’esaustiva sintesi creativa.
Difatti qui subentra lo spirito del tempo, ovvero la Tecnica nell’accezione jungeriana. Gli strumenti – i colori per il pittore e la phonè per l’attore - porteranno a risultati virtuosistici, col passare del tempo apparentemente sempre più autoreferenziali: paesaggi, cavalli e autoritratti in costume d’epoca per de Chirico; l’incontro con Dino Campana, Dante, addirittura Alessandro Manzoni, per Bene. Pare una contorsione barocca, un’emancipazione dai significanti e dalla contemporaneità, giacché il gesto artistico tende pericolosamente ad avvicinarsi al circolo vizioso, a tutto favore della pura forma. Vuoti estetismi, si dirà, messinscena crepuscolare, addirittura sterilità creativa, provocazione passatista per i più indulgenti. Per quello che ci riguarda dissentiamo: Non è importante cosa, nel ginepraio “moderno” delle moltitudini creative, ma il come, con quale stile – ammesso d’averne uno - ammantare d’eterno il contingente. Questa è sfida agli dèi, questo è un incendio che i pompieri non saprebbero riconoscere, tanto meno spegnere, divampando in entrambi i casi nell’illusorio.