In Egitto con Flaubert
Quando nel 1849 Maxime du Camp, a Parigi, concorda con Gustave Flaubert il viaggio a oriente – un viaggio che doveva iniziare in Egitto, proseguire con la Palestina, la Siria e ancora oltre, fino alla Mesopotamia e all’Iran – il mito della spedizione in Egitto di Napoleone è ancora ben vivo. Certo, quella campagna, dal punto di vista militare, era stata un fallimento. Dopo un inizio fortunatissimo, Napoleone riesce a evitare la flotta inglese che sta fra Creta e le coste egizie, e porta 30 mila uomini, sbarcando ad Alessandria, a sconfiggere i Mammalucchi. Poi la battaglia di Aboukir, che segna la distruzione della flotta francese, il 2 agosto 1799, e lascia un esercito intero senza rifornimenti. E il suo seguente ritorno in Francia che sarà permesso, con l’onore delle armi, dagli inglesi vincitori.
Però da quella spedizione scienziati, archeologi, mineralogisti, botanici, zoologi, medici, architetti, pittori, che erano andati a scoprire la civiltà dell’antico Egitto, torneranno con un materiale enorme che diventerà un’opera, in molti volumi, sulla civiltà dei faraoni e su quella araba (nella foto sopra Le Sphynx vu de Face, Egypte Moyenne). Un’opera che trasformerà tutto – addirittura la cultura dell’arredo di interni – e quindi l’intero racconto della Francia e dell’Europa del XIX secolo. Tutto questo Maxime du Camp lo aveva ben chiaro, anche perché prima di lui, il mito del viaggio in Egitto, era già stato raccontato in molti scritti. Un primo nome? Vivien Denon. Un raffinato intellettuale cinquantenne che aveva partecipato alla spedizione napoleonica e, da quell’esperienza, ne aveva tratto un volume: un diario di viaggio, corredato da disegni, che aveva avuto un enorme successo. Un altro nome è quello di un esploratore, ma insieme mercante e depredatore di sculture, che lavorava per il console inglese in Egitto, Giovanni Belzoni. Un italiano che aveva pubblicato a Londra, e in Francia, un racconto denso di avventure che ribadiva, certo, il mito del viaggio in Egitto, ma raccontava, inesorabilmente, anche il saccheggio di sculture, sarcofagi e di ogni opera d’arte trasportabile. E quelle opere scoperte dagli “esploratori” erano destinate tutte a diventare fulcro dei musei dell’arte egizia di mezza Europa: dal Louvre, al British fino al museo di Torino.
Ma torniamo a Maxime du Camp: nella spedizione del 1849-1851, insieme a Flaubert, decide di fare il fotografo e, per questo, va a imparare l’arte della fotografia presso lo studio più importante di quegli anni: quello di Gustave le Gray (che non poco aveva dovuto insegnare anche al fotografo fiorentino Leopoldo Alinari). Così eccolo a studiare la tecnica: negativi di carta, cioè strato sensibile posto sul foglio “negativo” di carta imbibita di cera – e quindi traslucida – poi positivi a contatto, stampa alla albumina, di un bel tono bruno dal chiaro allo scuro, e via dicendo. Maxime quindi s’imbarca con Gustave e, a questo punto, inizia la loro spedizione. Dopo oltre un anno di viaggio, che li porta fino alla Palestina, i due racconti si dividono, come in ogni buon giallo che si rispetti. Flaubert nel suo diario di viaggio – poi pubblicato postumo – racconta dell’amico che fotografa i monumenti (foto sotto), sosta a lungo, sotto al sole, e “magari per una sola immagine serve mezza giornata”. Maxime du Camp, trenta anni dopo, scrivendo i suoi ricordi, descrive invece il viaggio del suo amico Flaubert: “Dell’antico Egitto non si interessava affatto, propendeva di più per la bellezza delle danzatrici egiziane”. (continua)