Fellini e Joyce. Realismo e visionarietà
Tra le numerose fonti di ispirazione letterarie che hanno influenzato Federico Fellini si è parlato spesso di Kafka, Proust, Simenon e, soprattutto, di Dante, sul cui Inferno il regista aveva in cantiere una sceneggiatura (anche se, come affermò lui stesso, tutti i suoi film sono riconducibili a Dante: “In fin dei conti che cosa sono i miei film, se non delle discese all'inferno, con un barlume di paradiso?”). Spesso, inoltre, il cinema di Fellini è stato messo in relazione, seppur genericamente, con la letteratura di James Joyce. I punti di contatto più evidenti sono, infatti, l’interesse per la memoria, per l’infanzia che irrompe nei momenti più intensi ed “epifanici” del presente, l’ossessione per la religione e la religiosità, l’uso della satira grottesca, e l’interesse verso le culture più basse come, nel caso di Joyce, quelle legate alla spettacolarizzazione teatrale e melodrammatica nei generi minori della pantomima e del music hall (che ritroviamo, traslati nella loro strampalata e stralunata poeticità, negli innumerevoli clown felliniani). Tuttavia, il punto di maggior contatto tra i due, che scaturisce dallo stesso trattamento del momento epifanico, è la costante commistione di realtà concreta e realtà onirica, una commistione talmente stretta e inestricabile da rendere il confine tra le due sfere dell’essere a dir poco labilissimo. Gli stati onirici e subcoscienti sono veri e propri fondamenti dell’esperienza umana per entrambi gli autori, e fonte inesauribile del linguaggio più autentico della coscienza.
La famosa affermazione di Fellini secondo la quale “il visionario è l’unico vero realista” fa dunque da inconfutabile e lampante eco alla definizione che Italo Svevo diede del suo maestro irlandese: “Joyce è il sognatore più esatto di tutti”. Dunque l’inestricabilità di realismo e fantasia, mondo onirico e mondo tangibile, è la cifra stilistica e contenutistica che caratterizza sia Joyce sia Fellini. Uno dei primi a notare tale somiglianza e a ravvisare un immediato paragone, anche in merito al comune interesse per il monologo interiore, fu Alberto Moravia, in un articolo su 8 e ½ apparso su L’espresso il 17 Febbraio 1963:
“Il personaggio di Fellini è un erotomane, un sadico, un masochista, un mitomane, un pauroso della vita, un nostalgico del seno materno, un buffone, un mistificatore e un imbroglione. Per qualche aspetto rassomiglia un poco a Leopold Bloom, l'eroe dell'Ulysses di Joyce che Fellini mostra in più punti di aver letto e meditato. Il film è tutto introverso, ossia, in sostanza, è un monologo interiore alternato a radi squarci di realtà. La nevrosi dell'impotenza è illustrata da Fellini con una precisione clinica impressionante e, forse, talvolta persino involontaria. [...] I sogni di Fellini sono sempre sorprendenti e, in senso figurativo, originali; mai nei ricordi traluce un sentimento più delicato e più profondo. Per questo i due episodi dell'infanzia nella rustica casa romagnola e della fanciullezza con il primo incontro con la donna sulla spiaggia di Rimini, sono i più belli del film e tra i più belli di tutta l'opera di Fellini”.
Indirettamente, tuttavia, è lo stesso Fellini a rispondere in maniera provocatoria a Moravia, affermando di non avere letto nulla di Joyce, allorquando gli si chiedeva delle possibili ispirazioni per il film:
“No guarda, non ho letto Proust, non ho letto Joyce, non so un cazzo di niente […]. Non c’è bisogno che tu abbia letto Joyce o che tu vada a vedere i quadri di Picasso, ormai la vita è condizionata da quelle opere, quindi basta che tu vivi e per forza assorbi il contenuto di quelle opere”.
Fellini afferma dunque di non aver letto Joyce (ma non sapremo mai se è vero) ma che l’autore sembrava circolare nell’aria del tempo e insinuarsi, seppur in maniera recondita, tra le pieghe più misteriose dell’esperienza interiore e dell’ispirazione artistica. Ciononostante, quelle che possono sembrare soltanto mere speculazioni intellettuali di ordine comparatistico diventano invece un punto fermo di riflessione nel momento in cui la presenza di Joyce si fa “tangibile” e precisa all’interno della produzione di Fellini e, nella fattispecie, nella preparazione del film Toby Dammit. Nel manoscritto originale della sceneggiatura, ora conservato presso la Library of Rare Books di Bloomington (Indiana), troviamo una scena estremamente significativa che non fu poi realizzata nel film. Arrivato all’aeroporto di Roma, Toby Dammit, un regista in preda a crisi allucinatorie, attraversa in ansia i numerosi meandri dell’aeroporto. Una volta completato il percorso, “Dammit si ferma al bancone dove gli agenti della dogana ispezionano il contenuto delle valigie. Essi rovistano sgarbatamente al loro interno. Aprono anche quella di Dammit: dentro c’è solo una bottiglia di whiskey e una copia dell’Ulisse di Joyce” (citato in Fellini. Painting in Film. Painting on Film di Hava Aldouby, p.17). Anche se eliminata nella versione finale, la scena, come originariamente concepita, risulta essere illuminante per comprendere l’importanza di Joyce all’interno dell’estetica e della poetica felliniana. I paralleli tra Dammit e Leopold Bloom, dunque, ci riportano a quelli, intuiti da Moravia, tra Guido Anselmi e lo stesso Bloom, in un doppio connubio di personalità che, ancora una volta, va a colpire l’ambivalenza e la reciprocità dei due concetti di realtà onirica (o distorta, come nel caso di Dammit) ed estremo realismo.
Non solo. In Toby Dammit troviamo altri riferimenti che sembrano essere decisamente e squisitamente joyciani. Mentre è in macchina, bloccato nel traffico di Roma, Dammit è accompagnato dal ridicolo e grottesco Padre Spagna, il quale gli spiega che il film che dovrà girare è una interpretazione in chiave cattolica del genere western. Le immagini, gli dice, dovranno essere eloquenti: “inquadrature semplici, sintagmatiche, come direbbe il mio amico Roland Barthes, qualcosa fra Dryer e Pasolini, con un pizzico di Ford, beninteso” e , inoltre, il film dovrà conciliare, nella sua estetica, “Fred Zinnemann e Piero della Francesca”! Se l’intento è volutamente satirico (critico, forse, verso un cinema italiano troppo aridamente intellettualistico e “citazionista”), è pur vero che i molteplici riferimenti intertestuali fanno capo allo stesso Roland Barthes, il quale aveva descritto proprio quello spazio multiplo dell’opera d’arte in cui, come in Joyce, converge una miriade di altri scritti e di altre opere, creando così una fusione di indubbia originalità.
In maniera molto simile, sia Joyce sia Fellini cercavano, nei loro linguaggi, di dare voce all’inesprimibile e all’ineffabile (in senso puramente “dantesco”, essendo Dante anche una fortissima ispirazione per Joyce). Per giungere a ciò, anche Fellini si interrogava non solo sul linguaggio visuale ma anche su quello verbale, come infatti espresse in una lettera al poeta sperimentale Andrea Zanzotto, chiedendogli una collaborazione per il doppiaggio dei dialoghi di Casanova:
Vorrei tentare di rompere l’opacità, la convenzione del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole, e cercare di restituirgli freschezza, renderlo più vivo, penetrante, mercuriale, accanito, magari dando la preferenza ad un veneto ruzantino o tentando un’estrosa promiscuità tra quello del Ruzante e il veneto goldoniano, o meglio riscoprendo forme arcaiche o addirittura inventando combinazioni fonetiche e linguistiche in modo che anche l’assunto verbale rifletta il riverbero della visionarietà stralunata che mi sembra di aver dato al film.
Ed è proprio nel tentativo di “rompere l’opacità” di un linguaggio “raggelato” e “disemozionato”, cercando dunque di rendere tale linguaggio “vivo, penetrante, mercuriale”, così come nella ricerca “di forme arcaiche” o di nuove “combinazioni fonetiche e linguistiche”, che Fellini si avvicina fortemente a Joyce, il quale affermava che “la cosa importante non è ciò che scriviamo, ma come scriviamo”. Le somiglianze non si limitano dunque ai soli contenuti e ai temi affrontati, ma, soprattutto, si esplicano in una analoga concezione del linguaggio e dello stile, laddove, per entrambi gli autori, lo stile e il linguaggio riflettono (“l’assunto verbale riflette il riverbero della visionarietà del film”) o altresì “creano”, in maniera mimetica, il contenuto stesso dell’opera.