Ghizzardi che non si guarda dall'alto
Il silenzio è parola trattenuta, talvolta camuffata in dialetto bofonchiante, nei finti vuoti della terra umida; il silenzio è l’immagine nebbiosa, visione sfuggevole, icona velata d’una cappella votiva, lo sguardo ammaliatore di una donna nascosta; il silenzio sono rane, cicale in coro, attorno alla casupola del contadino fuori paese, sulle pietre interne graffiti tracciati a carbone o gessi rubati dalla lavagna, raffiguranti desideri ancestrali e natura semplificata in archetipi. Livellamento verde terraqueo, scompartimento di campagna poco battuto, quella lentezza zanzarosa a bordo canale/bonifica, cinta da laterizie dighe metafisiche, resiste ancora a valle dell’argine maestro. Per dire dell’artista Pietro Ghizzardi (Viadana, 1906 – Boretto, 1986), occorre partire da qui. Da un luogo preciso, che poi è il contrario del Mondo, di quello che entra tracotante, giganteggiando elefantiaco nel piccolo soggiorno, stravolgendone irreparabilmente gli equilibri. Mentre dovrebbe essere il contrario, a gran giovamento di tutti. Dunque, il luogo di Ghizzardi è fisico e geografico, sta lì in mezzo alle province di Reggio Emilia, Parma e Mantova, nell’imminenza del Po, nella “bassa”, chiamata così d’ambo i lati del fiume; ma è pure luogo del tempo estinto, del paesaggio divenuto passaggio - di camion e auto (in acqua di siluri) - sulla tentacolare, titanica, tetragona, onnipresente, tangenziale emiliana; crepuscolo di un paesaggio discreto, piegatosi come un vassoio servile alle ingordigie del progresso. Così d’altro canto è pure sede dell’altrove, ringraziando per questo suggestione e immaginazione, ovvero gli attributi dell’arte.
Casa Museo Pietro Gizzardi e Casa Falugi a Boretto, in questo sguardo viandante, ancora consolatorio gettato nei dintorni, rappresentano presidi di memoria, tuttavia non proni a quel seppiato compiacimento strapaesano, o del mondo piccolo di Guareschi (distante pochi chilometri, ciò che ne resta ad uso turistico), fatalmente destinati ad alimentare nostalgie estetizzanti. Oppure comodi rimpianti. C’è qualcosa di vivo, arcaico, ancora pulsante e financo tumultuoso, che ancora non s’è lasciato storicizzare, ovvero sterilizzare, da queste parti. Qualcosa di indecifrabile, finalmente. Se nella casa-museo, dove l’artista visse gli ultimi anni, si possono ammirare molte opere pittoriche di medio-piccolo formato, effetti personali e svariati documenti originali, a Casa Falugi, aristocratico villino padano, permane enigmatica, quella che Cesare Zavattini definì la cappella sistina della bassa; ordine di doppi ritratti illustri (Carlo Magno Gregorio Magno, Adamo ed Eva, Sophia Loren Anna Magnani, Vittorio Emanuele II e… la bella Rosina), oltre ad autoritratti, Santa Genoveffa in gabbia, donne in pelliccia e contesse suicide. Si tratta di un intervento realizzato con colori poveri, che oggi chiameremmo orribilmente site-specific o meglio, frutto di residenza d’artista per filantropica concessione per scappati di casa, privo di una visione d’insieme, ma assai propenso alla narrazione liberissima, come nel medioevo più ipnagogico. Allora ti viene in mente La casa dalle finestre che ridono, di Pupi Avati, associazione mentale riguardante il gotico padano, oppure, soppesando quei segni neri, quelle marcate costruzioni fisionomiche, l’espressionismo tedesco, la Nuova Oggettività di Otto Dix e George Grosz.
Nell’anomalo caso di Pietro Ghizzardi, è davvero tutt’altro rispetto al candido lillipuzianesimo naif o, peggio, alle certificazioni forzate di follia ad uso artistico. Egli non fu un matto, e qui, per quanto vale, ci metto la prima persona, dato che feci in tempo a vederle quelle facce stralunate, quei ghigni solcati di contadini bizzarri, d’artisti selvaggi autodidatti, di tipi strani che disegnavano vacche nelle stalle durante i lunghi inverni, immaginando l’esistente nell’inesistente, il reale in forma diversa, la superstizione nella croce. Quell’urgenza brutale, non protocollata dalla targa sull’uscio, anzi addirittura senza campanello, vista con sospetto dal microcosmo circostante così come ignorata dall’ufficialità corporativa dell’arte di Stato. Basti guardare quel volto da mago, l’artista da vecchio in tabarro e cappello da druido, per scorgere la presenza del daimon, il tratto divinatorio ben evidente nella costruzione – quasi architettonica (qui azzardo: paradossalmente già Pop-art), con quei segni di fuliggine che schematizzano i lineamenti – dei ritratti femminili. Quelle bellezze austere e sfatte, stanno mute in un limbo tutto padano, casualmente in mezzo tra i romani Mafai e Scipione, e i già citati tedeschi. Solo che Ghizzardi non ne aveva notizia, impegnato com’era a dipingere senza colori, ma con quel che trovava in giro, le sue muse campestri. Fu proprio grazie al perlustratore Zavattini, che Einaudi pubblicò le memorie in argot padano Mi richordo anchora, meritevoli di allori al Premio Viareggio un anno dopo. Scrisse ancora Ghizzardi, e dipinse molto su muri e tavole d’ambo i lati, come se il supporto fosse il Po delle due “basse”, forse perché lo convinsero ch’era tutto vero, che finalmente era un vero artista. A noi frequentatori riottosi di mega-eventi sovente artificiosi, farà bene tornare a casa di tanto in tanto, quella che abbiamo più vicino. Perché l’arte di Ghizzardi non si guarda dall’alto, ma ci costringe ad abbassarci, a guardare la zolla, l’acqua, l’erba, il calpestato cammino.