Gli occhi di Wittgenstein
Già leggendo o ascoltando il suono del suo nome si può essere attratti dal fascino di Wittgenstein. La sua vita irregolare, l’intelligenza e le scelte imprevedibili, sono soltanto le basi di quello che in qualche modo è divenuto un mito. Filosofo, logico, matematico, soldato, progettista, giardiniere, maestro elementare e professore universitario: la sua biografia è un’opera letteraria o cinematografica, sulla quale la tentazione di esagerare, di elucubrare e inventare vince spesso.
Figlio di un magnate dell’industria del ferro, Ludwig Josef Johann Wittgenstein nasce a Vienna nel 1889 e cresce nello stesso lusso dell’aristocrazia asburgica, in un palazzo fervente di cultura, in cui il mecenatismo è una prassi e vengono ospitati spesso personaggi come Brahms e Mahler. La sua famiglia ha origini ebraiche ma suo nonno paterno si converte al protestantesimo, mentre la madre di Ludwig, cattolica, lo fa battezzare appunto con rito cattolico. Wittgenstein riceve un’istruzione privata e va a scuola per la prima volta a quattordici anni, in un istituto di Linz frequentato anche da uno sconosciuto Adolf Hitler.
Dotato di grande senso pratico e interessato dall’aereonautica – campo nel quale deposita un brevetto –, Ludwig studia ingegneria prima a Berlino e poi a Manchester, approfondendo la teoria matematica, che a sua volta lo conduce alla filosofia. Non ottiene una laurea in ingegneria ma la cosa non sembra toccarlo. Espone le sue teorie sulla logica e sulla matematica al più grande esperto in materia dell’epoca, ovvero Gottlob Frege, che lo indirizza verso il suo pari Bertrand Russell a Cambridge. Se Frege era rimasto scettico nei confronti di Wittgenstein, Russell invece ne viene folgorato.
Nel 1913 Ludwig Wittgenstein si ritira sul fiordo di Sogne, a nord di Bergen, in Norvegia. Nonostante non abbia pubblicato ancora niente, ha già l’aria di un grande filosofo, pronto a destabilizzare le basi della conoscenza, e come tale non teme di seguire le proprie idee. A ventiquattro anni ha già bisogno di raccoglimento, silenzio e solitudine, lontano dal Trinity College di Cambridge, dove ormai ha incantato Russell e ha stretto molte importanti amicizie, nonostante il suo carattere difficile. Incurante delle regole accademiche, non fa nulla per laurearsi e manda al diavolo il suo amico Moore che vuole aiutarlo.
Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale si arruola come fuciliere nell’esercito austriaco e combatte sul fronte orientale. Wittgenstein vuole trovarsi di fronte alla morte, vuole scendere in uno stato più profondo dell’esistenza umana. Il campo di battaglia è anche campo di riflessione, con un taccuino che si arricchisce di appunti sulla logica e sulla sua condizione umana. Nella stessa guerra, suo fratello, il musicista Paul, subisce l’amputazione del un braccio destro e suonerà tutta la vita con una mano sola, onorato da compositori come Strauss, Ravel e Prokof’ev che creeranno per lui composizioni per la mano sinistra.
Nel 1921 Ludwig riesce a dare forma alle sue idee, passate per le accademie ma soprattutto attraverso una vita libera che ha visto anche le trincee e la prigionia: viene pubblicato in tedesco il Logisch-philosphische Abhandlung, ripubblicato l’anno successivo con l’introduzione di Russell e il nuovo titolo Tractatus Logico-Philosophicus, suggeritogli da Moore come richiamo al Tractatus theologico-politicus di Baruch Spinoza.
Il Tractatus è la consacrazione di Wittgenstein, un libricino che vuole «risolvere» il problema della filosofia, esprimendosi in modo definitivo sul linguaggio, sulla forma logica, sulla matematica, sulla scienza, sull’etica, sul mondo e il suo senso. Si tratta di un’opera che scandisce rigorosamente un pensiero dichiarato anche laddove non viene espresso. Il Tractatus viene visto come la summa del pensiero di Wittgenstein, mentre è una tappa – per quanto fondamentale – in un percorso conoscitivo che ha portato il filosofo viennese a dover tornare in seguito su alcune delle sue tesi principali. Nel Tractatus il pensiero viene definito come «immagine logica dei fatti» ma la forma logica, non essendo rappresentabile, può solo rispecchiarsi nel linguaggio. Siamo nell’ambito di un simbolismo ideale che concepisce un linguaggio perfettamente logico. In questa concezione, con una serrata struttura di capitoli e sottocapitoli, il filosofo viennese smonta la metafisica, traccia i limiti del linguaggio e pensa di aver ormai terminato la sua missione, poiché ha liquidato ogni questione filosofica: è pronto per cambiare vita.
Ludwig, con lo stesso rigore espresso nel suo Tractatus rinuncia all’immensa fortuna economica accumulata dalla sua famiglia e si prepara per diventare maestro elementare. Va a insegnare in remoti villaggi rurali austriaci, dove lavora in modo estremamente efficace ma per niente ortodosso, attirando il malcontento sia dei bambini che dei loro genitori. Lascia l’insegnamento e va a fare il giardiniere in un convento, per poi impegnarsi, nella seconda metà degli anni ’20, nella progettazione e nella costruzione della casa di sua sorella Margarete, detta Gretl, resa nota anche dal ritratto dipinto da Klimt.
Convinto a ritornare a Cambridge nel 1929, vivendo quasi in miseria, Wittgenstein riesce a ottenere finalmente una laurea e una borsa grazie a Moore e Russell, che gli fanno esporre il Tractatus come tesi, presentandosi anche come esaminatori.
Ludwig però inizia a dubitare di alcuni importanti punti del suo Tractatus, anche grazie a un economista italiano, Piero Sraffa, che lo incalza, minando la validità delle sue teorie sulla forma logica del linguaggio, attraverso lunghe discussioni nelle quali porta esempi come il gesto napoletano della mano passata sotto il mento per indicare disinteresse. Sraffa porta Wittgenstein a ragionare anche sull’essenza sociale del linguaggio, che ha uno statuto di significanza e funzionalità. Wittgenstein allora abbandona la concezione di un linguaggio puro, che ha un’identità di forma logica con la realtà, per concentrarsi sull’uso del linguaggio. La proposizione assume la propria condizione di senso in rapporto ad una modalità di impiego riferita ad uno scopo. Il linguaggio si impara con la pratica, con un addestramento simile a quello degli animali, che prevede esempi, ricompense e punizioni ma non spiegazioni e definizioni. Il linguaggio non è un sistema unitario ma una stratificazione di formazioni linguistiche distinte, non è esclusiva assegnazione di nomi.
Il rapporto con l’accademia è conflittuale e Wittgenstein sembra essere un corpo estraneo anche come docente. Nel 1939 arriva a ottenere la cattedra in Filosofia ma due anni dopo corre al Guy’s Hospital durante il bombardamento di Londra per offrirsi come barelliere, di nuovo in contatto con la morte. Spesso in viaggio in Norvegia e in Russia, Wittgenstein si trasferisce in Irlanda dopo aver lasciato la cattedra di Cambridge nel 1947, per poi andare alla Cornell University negli USA. Ammalato, torna in Inghilterra, dove scopre di avere un tumore. Continua a viaggiare, pensare e filosofare finché muore a Cambridge nel 1951, nel più crudele dei mesi, aprile, nel quale era anche nato, sessantadue anni prima.
Visto da molti come un profeta, un folle o un genio, Ludwig Wittgenstein non si cura del giudizio degli altri e vive liberamente, nel pensiero, nel lavoro e nei suoi amori, dalla breve relazione con Marguerite Respinger, fino agli amori omossessuali con i suoi studenti. Il suo pensiero è autonomo e la sua condotta vitalistica, definita da molti come impavida.
Dopo la sua morte iniziano a essere pubblicati tutti i suoi scritti: taccuini, quaderni e lettere, oltre agli appunti dei suoi studenti. Nel 1953 esce Philosophische Untersuchungen, ovvero le Ricerche filosofiche che rappresentano quello che viene spesso chiamato «secondo Wittgenstein». La riflessione principale è incentrata sempre sul linguaggio, il cui apprendimento non è una semplice denominazione di oggetti: l’attività del linguaggio ha varie funzioni, non solo quella di raffigurare e denominare. Le proposizioni ci consentono di fare svariate cose, come esclamare, invocare, ordinare o scherzare. Tutte queste attività potenziali delle nostre proposizioni vengono definite come «giochi linguistici», formati da regole diverse che possono cambiare a seconda dei differenti «giochi». I significati si realizzano secondo regole che cambiano in base alle circostanze e alle intenzioni di chi parla, così come avviene con le carte, che assumono diversi significati e valori a seconda del gioco al quale stiamo giocando. Non viene più preso in considerazione il linguaggio ideale ma quello abituale, che risponde alla funzionalità. La filosofia diviene dunque un mezzo per descrivere il linguaggio e prendere coscienza dei suoi differenti usi: il filosofo, con questa prospettiva, andrà a fare chiarezza sui problemi filosofici causati da un uso improprio del linguaggio. La filosofia non è più, dunque, una disciplina, ma diviene un’attività, una «terapia» volta a smontare le cattive abitudini di pensiero.
L’intelligenza penetrante del suo sguardo e una sorta di aura che lo avvolge, tra inquietudine e meraviglia, non lasciano indifferente chi si trova di fronte a Wittgenstein, indagatore rigoroso e libero della logica, della matematica e della filosofia, che ha mostrato il nonsense della metafisica e al tempo stesso ha espresso una sua personale mistica. Ludwig Wittgenstein sembra guardarci ancora, domandandoci che cosa significa «pensare», quali siano gli utilizzi differenti di questa parola nei più svariati contesti. I suoi occhi sembrano freddi fari che vogliono aiutarci a far luce sul modo in cui pensiamo, parliamo e di conseguenza viviamo.