Il binario del delirio

Gli sono bastati nove anni per passare da una cella di prigione alla poltrona di cancelliere, solo sei per imporre al mondo intero la propria follia omicida. In una quindicina d’anni l’Imbianchino è riuscito ad incendiare il pianeta. E tutto ciò che è  accaduto in questo breve periodo e sta accadendo durante i primi anni della guerra era già scritto nelle pagine di Mein Kampf. Dal giorno in cui ha avuto i pieni poteri, Hitler non ha fatto altro che attuare il piano di  battaglia contenuto nel libro. Passo per passo, esattamente come lo ha progettato durante i mesi della detenzione a Landsberg am Lech. Quasi si trattasse di realizzare una vasta pittura, dopo averla delineata nei minimi dettagli in un album di disegni preparatori. 

In patria, ha iniziato col sopprimere la “libertà che disorienta il popolo”. Poi, ha lanciato la campagna di “igiene razziale” destinata a “purificare la razza ariana” ed a proteggerla dalle contaminazioni con le “razze inferiori”. Ha fatto piazza pulita della “putredine marxista” e della “cancrena borghese e liberale”. Ed in fine, si è sbarazzato dell’“arte e degli artisti degenerati”. Ora, sull’intero continente, sta scatenando simultaneamente l’attacco decisivo contro “l’internazionale ebraica” ed i paesi che ostacolano l’espansione dello “spazio vitale di una grande Germania nazionalsocialista”. Convinto, in perfetta corrispondenza con i proclami messianici del testo, che la guerra sia un’arte di cui la morte è lo strumento, la ferocia sistematica la maniera, lo sterminio di massa l’opera più compiuta.

Già nel 1933, il programma eugenetico di eliminazione dei bambini con difetti fisici o intellettivi rivelava senza ambiguità il substrato criminale dell’ideologia che lo avrebbe condotto fino a concepire la “soluzione finale”. L’Eu-Aktion, questo il nome dell’operazione, prevedeva l’obbligo per gli ospedali di segnalare all’ufficio appositamente istituito “i degenti d’età inferiore ai tre anni affetti da una delle seguenti malattie: idiozia e sindrome di Down, idrocefalia, macrocefalia, cecità o sordità, malformazioni di ogni tipo, specialmente agli arti, alla testa ed alla colonna vertebrale; inoltre, le paralisi, incluse le condizioni spastiche”. I piccoli pazienti venivano sottratti di forza ai genitori con la scusa del trasferimento in “centri pediatrici speciali” nei quali avrebbero ricevuto cure migliori e dove, invece, venivano assassinati con un’iniezione letale, sezionati “a scopo scientifico” e  poi cremati. La causa ufficiale dei decessi era la “polmonite”. Le vittime recensite, solo nei primi due anni di pratica, oltre cinquemila.

Molto breve e molto facile da compiere il passo con il quale l’Imbianchino avrebbe assimilato l’appartenenza ad un’etnia, l’orientamento sessuale o la militanza politica all’invalidità, cioè ad una forma di “inferiorità” meritevole della pena capitale. Così,  amalgamando la sua interpretazione personale del darwinismo sociale ad un’ antropologia mitologica tramite il legante del delirio di onnipotenza e dell’odio  razziale, il Führer ha partorito il concetto di  “Untermenschen”, vale a dire uomini subumani. Poi, ha riunito in questa categoria tutti gli individui da sopprimere per il bene proprio, del Reich e del mondo: Ebrei, Rom, comunisti, omosessuali, disabili ed ogni gruppo di oppositori.  

Persone considerate come cose, corpi come oggetti. Vite trattate come roba da smaltire, dopo averne sfruttato tutte le possibili utilità. La concezione dell’essere umano come materiale disponibile ai fini di un disegno superiore. Queste sono le  fondamenta sulle quali vengono edificati i campi di concentramento. Dachau è stato il primo, poi Breitenau, Sachsenhausen, Buchenwald, Mauthausen, Flossenburg, Ravensbruck, Stutthof, Majdanek, Sobibor, Bergen-Belsen, Auschwitz-Birkenau, Theresienstadt, Treblinka ed una lunga lista di altri luoghi i cui nomi significano solo tortura, sofferenze indicibili e morte. L’Imbianchino dissemina i lager in ogni paese  che sottomette al suo potere: Germania, Austria, Slovacchia, Polonia, Paesi Bassi, Francia, Italia, Bielorussia, Jugoslavia, disegnando una topografia dell’orrore che nemmeno le fantasie più morbose avrebbero osato immaginare.

Ogni campo ha le sue atroci specificità, però tutti hanno in comune la prassi di sostituire, al momento dell’arrivo, l’identità personale dei deportati con cifre e simboli. Non ci sono più nomi e cognomi, ma numeri di matricola e triangoli di colore. Un’etichettatura destinata a cancellare la qualità di persona propria ad ogni individuo, per attribuirgli solo il marchio che rende riconoscibile un oggetto in un deposito merci. Stella di David o triangolo giallo per gli Ebrei, marrone per i Rom, rosso per i detenuti politici, verde per i delinquenti comuni, blu per i Tedeschi fuggiti all’estero, viola per i testimoni di Geova, rosa per gli omosessuali, nero per i cosiddetti asociali, preceduto da un numero di serie progressivo che permette di desumere la provenienza e la data d’internamento. Ad Auschwitz, quel numero verrà perfino tatuato sul braccio dei prigionieri, come se il loro corpo non fosse altro che il telaio di un qualunque macchinario destinato alla demolizione. Una volta varcata la soglia del lager, un uomo non è più un uomo. È un Untermensch in procinto di diventare un Muselmann - così lo chiamano gli aguzzini -  cioè un moribondo scheletrico, messo in ginocchio dall’inedia.  

A partire dai primi mesi del 1941, l’ipotesi di una “soluzione finale della questione ebraica” è sul tavolo dei vertici delle SS. Con l’incarico di elaborare un programma operativo che permetta di realizzarla, Göring e Heydrich sono stati scelti da Hitler per coordinare e dirigere i lavori. Anche Himmler e Eichmann fanno parte del gruppo. Quest’ultimo ha mostrato notevoli competenze in materia già nel 1939, quando ha concepito il Piano Madagascar, che prevedeva di trasformare l’isola africana in un immenso carcere nel quale internare tutti gli Ebrei d’Europa. Il progetto è stato accantonato solo in ragione delle difficoltà di trasporto via mare, dovute alla presenza della flotta britannica nelle acque internazionali. Ma, il genocidio degli Juden è rimasto un obbiettivo irrinunciabile del Führer e dei suoi accoliti, almeno quanto lo è la vittoria sui campi di battaglia. Resta solo da trovare la modalità più adatta per organizzare lo sterminio secondo i canoni dell’efficienza industriale. 

“Ammazzati anche tu e che sia finita!”. Le parole del nonno non hanno mai smesso di risuonare nella mente di Charlotte. Durante l’ultimo anno, il suo pensiero è ritornato ogni santo giorno all’istante in cui il suicidio della madre le è stato scagliato  contro con tanta violenza. E, sempre più spesso, quello di togliersi la vita le appare come un esito obbligato. Deciso per lei da un fato per nulla misericordioso, che le nega ogni altra scelta, come l’ha negata a sua madre, sua zia, sua nonna. Perché ci sono momenti in cui la sofferenza la travolge, quando i ricordi rincorrono gli incubi in una giostra sfrenata e la realtà le scappa di mano, non le appartiene più. Quando confonde in una sola visione il corpo della nonna disteso dentro una pozza di sangue sull’asfalto del cortile, il volto di Alfred che svanisce mentre parte il treno, le risate delle SS di Sachsenhausen, sua madre che vola dalla finestra nel cielo di Berlino, Paula e suo padre mentre si baciano sotto il baldacchino nuziale, lo sguardo mesto del professor Bartning, le baracche sudicie di Gurs, i sorrisi feroci dei Senegalesi, quelli amorevoli della signora Moore e del dottor Moridis.  

Il dottor Moridis glielo ha ripetuto cento volte: “Cara, hai troppo talento per non farne uso. Devi dipingere tutto quello che vedi e che senti. Quello che c’è nella tua speranza e nella tua memoria”. Ed anche questa voce si è impressa nella mente di Charlotte. Forse, potrebbe davvero dipingere la propria storia, che ormai è troppo difficile da vivere. E, ciò facendo, restituire la vita ai morti, che non avrebbero mai dovuto andarsene. Riportare vicino a sé coloro che sono lontani e non avrebbe mai voluto perdere. Trasformare la realtà in un teatro di carta, affollato da figure, musiche e parole, dove ci sia un posto anche per lei. Un luogo in cui trovare rifugio e potersi curare. Essere autrice, interprete e spettatrice di un dramma colorato, nel quale l’amore ed il dolore si tramutino in forme pittoriche e, in questo modo, diventino finalmente vivibili. È così, che dalla fine dell’inverno 1940/41, Charlotte comincia a lavorare metodicamente alla sua opera Vita? O Teatro?.                                                                                                                                                                                                                                                                                           Da quando le squadre della Gestapo presidiano le strade di Bruxelles, Felix e Felka non escono più dalla chambre de bonne di rue Archimède. Per quanto si amino con tutto il cuore, tra loro scoppiano di continuo polemiche e battibecchi. Quegli otto metri quadrati di mansarda sono tutto ciò che hanno a disposizione per lavorare, consumare i pasti, dormire, stare insieme, isolarsi. E, se l’amore muore di lontananza, è perfino più difficile farlo vivere quando gli manca lo spazio. Spesso Felix si lascia andare a critiche troppo acide contro i ritratti su commissione che Felka realizza servendosi di fotografie. Non trova altro modo per sfogare la frustrazione, visto che a lui viene richiesto solo di decorare piatti in ceramica. Lei tenta di sopportare e tacere, o al massimo di argomentare pacatamente, ma a volte capita che scoppi in lacrime, si metta a strillare. A quel punto, le discussioni diventano liti. Per giunta, dal momento in cui i contatti con i genitori di Felix si sono interrotti, lui e Felka hanno veramente  pochi soldi in tasca e, anche quei pochi, sono difficili da spendere, perché uscire di casa significa correre il rischio di essere arrestati. Quindi, non c’è mai uno svago, nemmeno quello di andare a comprare un’aringa sott’olio con due patate di contorno. 

È l’amico Billestraet che fa la spesa e la recapita quotidianamente. Sovente si fa carico di pagarla, dimenticando volentieri di chiedere il rimborso. Proprio una brava persona, Willy Billestraet. Abbastanza vicino a Felix da aver capito come la pittura  rappresenti per lui molto più di un mestiere e come il fatto di non poter fare mostre, non avere collezionisti, non frequentare critici ed altri artisti lo stia soffocando poco a poco. Almeno quanto la sensazione di essere braccato o la paura di essere catturato. Così, Willy si adopera in ogni modo per sostenerlo e, appena può, gli compra un quadro, lo incita a dipingerne di nuovi. Ma, non è raro che Felix si lamenti anche di questo, mostrandosi insofferente verso le sue attenzioni.

“Per favore, smettila di farmi la carità. Già le mie tele costavano poco a Berlino, adesso non valgono più niente. Non hai motivo per spendere questi soldi, mi fai sentire bisognoso“. Willy gli risponde: "Ricordati la storia del contadino e del suo cavallo. Quando il cavallo scappa ed i vicini lo consolano per la perdita, il contadino dice loro – Chissà se è un male? – Poi il cavallo ritorna in compagnia di una giumenta ed i vicini vanno a felicitarlo, allora il contadino dice – Chissà se è un bene? –  In seguito, il figlio del contadino si rompe una gamba cercando di domare la giumenta e, ai vicini che se ne dispiacciono, il contadino dice – Chissà se è un male? – Solo alla fine, quando scoppia la guerra ed il figlio non parte al fronte a causa della gamba rotta, il contadino ha la certezza che quello era un bene. Che ne sai tu di come finirà questa storia? L’unica cosa sicura è che non può durare in eterno e, magari, un giorno scopriremo che il favore me l’hai fatto tu, vendendomi a buon mercato i quadri del più grande pittore tedesco del nostro tempo”.

 

14 febbraio 1941 

Sbarcano a Tripoli due divisioni dell’Afrikakorps comandate dal generale Rommel. Vanno in aiuto delle truppe italiane, in gravissima difficoltà di fronte all’avanzata dell’esercito britannico. 

 

1° marzo 1941

La Bulgaria aderisce all’Asse Tripartito.

Heinrich Himmler ordina la costruzione di una struttura grande abbastanza da ospitare centomila prigionieri. Il nuovo complesso viene realizzato nei pressi di Birkenau, a circa un miglio dal campo di concentramento di Auschwitz.

 

2 marzo 1941 

Charlotte dipinge la prima scena di Vita? O Teatro?, illustrando il suicidio della zia nel lago Schlachten, in una livida notte di novembre del 1913. Già sul finire dell’estate passata, appena rientrata da Gurs, aveva iniziato a realizzare qualche schizzo di quello che, all’epoca, era ancora un progetto vago. Alcune immagini e poche pagine di note, presto accantonate a causa della stanchezza e della depressione. Sei mesi più tardi, dopo lunghe settimane di riflessione, la struttura del suo singespiel le è finalmente chiara. Racconterà fedelmente la storia della sua vita dal giorno in cui - quattro anni prima che lei nascesse - la sorella minore della madre le ha lasciato il nome in eredità. Sarà una cronaca figurata, accompagnata da testi e musiche, in cui ogni avvenimento verrà rappresentato con i colori a tempera su un  foglio di carta di trentatré per venticinque centimetri. Solo i cognomi dei personaggi dovranno essere diversi da quelli reali. I Salomon si chiameranno Kann, i Grünwald diventeranno Knarre, Paula Lindberg sarà Paulinka Bimbam e Alfred Wolfsohn assumerà l’identità di Amadeus Daberlohn. Charlotte ha deciso di dedicare l’opera a Ottilie Moore.

 

6 aprile 1941

Le truppe inglesi e sudafricane sconfiggono l’esercito italiano ed entrano ad Addis Abeba. Hailé Selassié, Imperatore d’Etiopia, tornerà ad insediarsi nella capitale il 5 maggio. 

 

10 aprile 1941

Gli Ustascia croati si impadroniscono del potere e, con l’appoggio di Germania e Italia, proclamano lo Stato Indipendente di Croazia.

 

27 aprile 1941 

La campagna dei Balcani si è conclusa con la vittoria del Reich. Grecia e Jugoslavia sono occupate dalle truppe naziste. La Wehrmacht sfila nelle strade di Atene. 

 

21 giugno 1941

L’Imbianchino lancia l’Operazione Barbarossa. Centoquarantacinque divisioni tedesche, affiancate da truppe italiane, rumene, ungheresi e finlandesi attaccano l’Unione Sovietica.

 

28 e 29 giugno 1941

Brigate della polizia rumena, squadracce paramilitari di filonazisti ed anche gruppi di comuni cittadini massacrano oltre tredicimila Ebrei nella città di Iasi, in Moldavia. 

   

Primi giorni di luglio 1941

All’Ermitage, Charlotte fatica a trovare la concentrazione necessaria per dipingere. Anche se la signora Moore fa di tutto per permetterle di lavorare in tranquillità, gli orfanelli schiamazzano in giardino da mattina a sera. Ma, ciò che è peggio è che il nonno sembra volerla ostacolare. Non perde occasione per interromperla con le sue lamentele e, spesso, con le sue contumelie. La signora Pécher, amica di Ottilie e proprietaria della pensione La Belle Aurore a Saint-Jean-Cap-Ferrat, le propone di ospitarla gratuitamente per tutto il tempo che vorrà. Charlotte accetta e si trasferisce nel villaggio a qualche chilometro di distanza.  

 

12 luglio 1941

L’Einsatzkommando 9 trucida circa cinquemila Ebrei a Vilnius, in Lituania.

 

25 luglio 1941 

Le unità operative Einsatzgruppen comandate da Reinhard Heydrich entrano a Leopoli, in Ucraina. Nell’arco di ventiquattro ore assassinano oltre tremila Ebrei. Le esecuzioni vengono compiute tramite fucilazioni di massa e con le camere a gas mobili, i famigerati Gaswagen. Si tratta di camion nel cui vano di carico, chiuso ermeticamente, i prigionieri vengono asfissiati dal monossido di carbonio contenuto nei gas di scarico del motore. Sono stati realizzati grazie alle tecnologie d’ avanguardia della fabbrica Opel.

 

Agosto 1941

Felix porta a termine la tela intitolata “La tempesta”. È il ritratto di un popolo che soffre. C’è chi è in lutto, chi impreca, chi si dispera e chi porta il fardello dell’esilio. Tutti sono riuniti al centro del quadro, come il coro di una tragedia classica. Dietro di loro, un fulmine squarcia le nubi di un cielo nerissimo. In primo piano, fuori dal gruppo, un ragazzetto vestito di stracci soffia su un fiore di tarassaco per disperdere nell’aria le piume della corolla. Sullo sfondo due alberi spogli. Da un ramo pende una corda, pronta a diventare capestro. 

 

8 agosto 1941

Himmler richiede ad Eichmann di convogliare verso est tutti gli Ebrei rastrellati nei paesi occupati. Al tempo stesso, comunica al comandante del campo, il tenente colonnello Rudolf Höss, che Auschwitz avrà un ruolo centrale nella messa in opera della “soluzione finale”. In fine, invia al generale Globočnik l’ordine di dare inizio all’Operazione Reinhard, con la quale si dovranno deportare gli Ebrei polacchi nei campi di Chelmno, Belzec, Sobibòr e Treblinka.

 

27 agosto 1941

Le SS e le unità della polizia locale sterminano duecentomila Ebrei a Kamenets-Podolsk, in Ucraina, durante un’operazione che dura tre giorni sotto il comando di  Friedrich Jeckeln, alto ufficiale delle SS e capo della polizia ucraina.

 

 

29 agosto 1941 

Le Einsatzgruppen eliminano più di trentamila Ebrei nei pressi di Kiev, a Babi Yar. I prigionieri vengono denudati, raggruppati sul bordo di grandi fosse comuni e giustiziati dal fuoco di numerose mitragliatrici. L’operazione si svolge nell’arco di quarantott’ore. 

 

Ultimi giorni di agosto 1941

Hanno inizio le deportazioni di massa degli Ebrei rumeni verso la regione della Transnistria. Oltre centomila moriranno di fame ed epidemie.

 

1° settembre
Il Ministro degli Interni del Reich ordina che gli Ebrei sopra i sei anni d’età e residenti in Germania debbano sempre avere sugli abiti una stella di David gialla quando si trovano in pubblico.

 

3 settembre 1941

Nel campo di concentramento di Auschwitz, ufficiali delle SS mettono in atto i primi esperimenti per l’eliminazione dei prigionieri con il gas Zyklon B. Le vittime sono seicento prigionieri di guerra sovietici e trecento deportati ebrei. Lo Zyklon B è un composto a base di acido cianidrico che, dopo aver causato convulsioni e perdita di coscienza, uccide provocando la totale anossia in un tempo medio di dieci minuti. 

 

8 settembre 1941

La Wehrmacht stringe d’assedio la città di Leningrado. 

 

 

26 settembre 1941 

Dopo un mese di combattimenti estremamente cruenti, le truppe naziste vincono la battaglia di Kiev. La città cade nelle mani della Wehrmacht e più di cinquecentomila soldati sovietici rimangono sul campo, sono dispersi o fatti prigionieri. Kiev è un cumulo di macerie. Si tratta di un trionfo dell’Imbianchino, che ha elaborato in prima persona la strategia e la tattica, spesso in aperto contrasto con i suoi generali.

 

2 ottobre 1941  

Hitler ordina l’inizio dell’Operazione Tifone, vale a dire l’assalto a Mosca. Per il Reich è estremamente importante conquistare la capitale prima che sopraggiunga l’inverno. In breve tempo la città sarà in stato d’assedio. Stalin ne affida la difesa al generale Žukov, detto l’Ariete dai suoi cavalleggeri dell’Armata Rossa. 

 

29 ottobre 1941

Nei pressi di Kaunas, in Lituania, ha luogo l’esecuzione di novemila Ebrei provenienti dal ghetto della città.

 

12 novembre 1941

Ha inizio la battaglia di Mosca. Il Reich impiega un milione e mezzo di soldati, tra artiglieri, fanti, truppe motorizzate e divisioni di carriarmati.

 

15 novembre 1941

Richard Sorge, agente segreto presso l'ambasciata giapponese, comunica allo stato maggiore sovietico che i giapponesi non attaccheranno l’URSS perché stanno per dichiarare guerra agli Stati Uniti. Stalin sguarnisce tutta la frontiera estremo orientale e concentra le forze in difesa di Mosca, schierando oltre un milione di soldati.

                                                                                                                                         … continua

 

 

25-03-2020 | 11:08