Il narcisismo di Baudelaire

Marco Vallora: Come mai non è presente in mostra, per esempio, il viso ectoplasmatico di Opalka, che si cancella nel colore sempre più flebile, nel bianco, che diventa numero progressivo e che via via diventa più sfarinato, come un sudario sbiadito?

Jean-Luc Nancy: Naturalmente a Opalka ci abbiamo pensato, ma pensavamo che fosse perfino troppo conosciuto, in Italia.

MV: In questo caso la sostanza interessante è quella di un ritratto che si cancella, con l’età, progressivamente, fino a sfiorare il nulla, a diventare sempre più vuoto d’identità, sostituito dalla sillabazione numerica…

JLN: In effetti è uno degli innumerevoli… come dire, talvolta avrei voglia di usare addirittura il termine “esperimento”, eppure è un’opera compiuta. Ma allo stesso tempo è un esperimento biografico, che poi diventa un’opera in sé compiuta, sopra appunto la sparizione del volto, all’interno di se stesso. Ed è anche questo un  “ritratto” (in italiano) di un viso che si ritira all’interno del viso stesso, facendo emergere anche un altro volto. Nella mostra si potrebbe dire che c’è l’opposto di Opalka, penso al video di Robert Cahen, che si chiama ‘Karine’, ed è il racconto visivo di una bambina praticamente dalla nascita fino ad una età di un po’ meno di 10 anni. Si vede un viso che poco a poco diventa, che prende forma, e allo stesso tempo ci si chiede appunto come prenda, e dove, questa forma. Perché quando si vede il viso di un piccolo bebè, tutti i visi di bebè si assomigliano, ed è qualche cosa di impressionante, vedere poi questo progressivo differenziarsi delle forme. Oggi, probabilmente lei come me, riceviamo tutti una quantità di foto di bebè nati da amici, parenti, tutti i nipotini, e sono quasi tutti identici. Sicuramente i genitori urleranno che no, non è vero, non sono tutti uguali! È vero, non sono perfettamente identici, pero c’è qualche cosa, nel viso di neonato, in cui si riconosce piuttosto il neonato in generale, che non il singolo individuo. E quindi cos’è mai l’individuazione?

MV: Forse che si ritrova l’idea di Aristotele, di una potenzialità iniziale che diventerà poi atto? Insomma, il percorso della potenzialità?

JLN: Ma, appunto, che cosa significa diventare un essere? È questo il problema. In un senso non è neanche una questione di “possibile”, se il possibile viene sempre definito da qualche cosa di già presente, preesistente, mentre qui il qualche-cosa non viene dato, e anzi non verrà mai dato. È la famosa idea di Blanchot, che l’unica autentica immagine di qualcuno è soltanto la sua immagine mortuaria. 

MV: È pur vero che l’immagine, nel mondo antico, classico, “l’imago”, si identifica spesso con l’immagine del morto, l’immagine funeraria. E anche il caso della pittura Fayyum egiziana: esiste un’immagine invisibile, mummificata, dello scomparso, ma sopra, sul ‘coperchio’ vi si pone un’immagine dipinta, che lo simula come vivo.

JLN: Sì, certo. Ma tra l’altro nella mostra c’è l’opera di Boltanski, si tratta di circa un centinaio di foto, che lui chiama ‘Gli Svizzeri Morti’. Sono le foto di morti in Svizzera, realmente le foto che si posano sulle tombe. Sono tutte foto di scarsa qualità, un po’ sfuocate, e il fatto di essere sfuocate è anche il loro modo di essere presenti. Certamente si ritrova sempre questo tema che lei dice dell’‘imago’, classica, ma direi che oggi persino questa imago, questa impronta della morte, reclama di vivere. Cerca, cerca…

MV: La posterità estetica? Una continuità nel presente?

JLN: Forse ancor di più: si tratta di un’attesa, una domanda, proprio la ricerca, s’è già detto, di trovare un significato al volto umano, che siamo molto vicini a pensare d’avere completamente perduto. Il che fa anche tutt’uno con il motivo della coincidenza con se stessi. Come nella mostra con il video di Douglas Gordon, quello di Daniela di Lorenzo, forse in questo senso anche quella di Oscar Munoz, con una mano che disegna, è sempre la domanda come fare combaciare un viso con se stesso.

MV: E si ritorna al problema-chiave del “Je est un autre” di Rimbaud, della ‘colla’ impossibile del sé. Ma tornando a Giacometti, all’idea del volto come freccia, è ancora la prova che il ritratto si risolve sempre in un combattimento di sguardi, di pupille che si guardano e che si vietano, impediscono una quiete, una pace stabilizzante. Penso per esempio all’avventura di Baudelaire, amico intimo di Nadar, che pure odiava la scoperta della fotografia, e non credeva al suo futuro, sostenendo che quel ‘ritrovato’ demonico incarnava la fine dell’arte. E però poi accetta, per complicità e familiarità, di concedersi alla nuova diavoleria di Nadar, al bacio fatale della macchina, alla posa interminabile. Ma quando si studiano le immagine di Baudelaire fotografato da Nadar (nella foto), pare davvero di percepire come un distacco, un’evasione. Le immagini sono, psicologicamente, mosse. Dunque sì, si presta alla bisogna, ma non vuole comunque concedere il proprio corpo, al demone della nuova arte non-arte fotografica. E torna dunque, di nuovo, l’idea del ritratto come di qualcuno che si ritira, si sottrae, si divincola, sfugge, nel momento in cui viene immortalato…

JLN: È vero, ma sarei tentato di pensare che da Baudelaire fino ad oggi ci sia stata una specie di convulsione tremenda, che in fondo è assai narcisistica. E che forse proprio oggi ne stiamo uscendo. Ciò che mi piace in certe opere è che in fondo lasciano da parte tutta la questione del rapporto con il sé. Per esempio, un po’ il video di Mark Lewis, o le foto di Yokomizo, che ha fissato appuntamento a delle persone, lasciando dei bigliettini, dicendo: domani mattina sarò sotto le vostre finestre. Le persone vengono alla finestra, guardano incuriosite, non sanno chi cercare. E lui scatta la foto. Ed è piuttosto bello, perché sembra che né il fotografo, né il modello fotografato, si preoccupino di chi si trova lì, in quel momento. È semplicemente: ecco, c’è qualcuno. 

MV: Quindi potremmo forzare dicendo che il destino dell’umanità sta nell’anonimato? Nel senso che quella della spersonalizzazione è una via di uscita, una vittoria?

JLN: Sì, in effetti trovo davvero che l’anonimato sia qualche cosa che tendiamo troppo a disprezzare. Ma quando siamo per strada in mezzo a tutti, in verità siamo tutti anonimi. E, al contempo, non ho bisogno di conoscere il nome di qualcuno, per eventualmente entrare in contatto, chiedere un’informazione. Dietro all’anonimato c’è, mi sembra, tutta la questione del comune, di cui abbiamo detto. Da qui l’ambiguità semantica del vocabolo comune, che diventa comune non nel senso di comunità, ma di banale, di volgare.

MV: Idea di qualcosa di comune, nel suo senso proprio di comunità, di comunanza che deve diventare operosa e che, riflettendo a certi suoi testi filosofici, risulta per Lei qualcosa di positivo, non necessariamente di negativo, di dispregiativo…

JLN: Certo, e trovo due sensi nel “comune”: da un lato il banale, l’anonimo, il volgare, dall’altro il senso dello stare insieme, di comunicazione, appunto, e di ‘comunicanza’. Un ritrovato bisogno di un nuovo rapportarcisi, uno all’altro.

MV: L’anonimato della città moderna. Quindi Benjamin, l’aveva capito, nella sua valorizzazione del flâneur, in stile Baudelaire?

JLN: Sì, sì, d’accordo, salvo che oggi non si può più essere completamente flâneur (quello che Benjamin e Baudelaire vagheggiavano) o per lo meno non si può più essere flâneur in questo mondo, nella città, nella grande città, nella metropoli, che è troppo movimentata, troppo concitata…

MV: Ma si può restare flâneur nella testa…

JLN: Proprio quello che stavo per dire, sì, forse si può esserlo lo stesso, flâneur, attraverso le immagini…

MV: E l’idea del libro, del catalogo della mostra “Altro Ritratto”, mi pare di capire. Ad esempio in questo caso il rapporto paritario tra testo e immagine mi pare fondamentale, sono allo stesso livello, paritario.

JLN: Direi persino che il testo deve arretrarsi rispetto alle immagini. Cosi come nella mostra, non ho voluto mettere più di tanto testo sulle pareti, appena dei piccolissimi suggerimenti, ecco, per non prevaricate con la parola

MV: Beh, non direi che sono solo didascalie…

JLN: Direi che sono piccole scintille, della piccole proposte di cui lo spettatore può fare ciò che vuole, può anche benissimo ignorarle.

MV: Tornando a Goya, è incredibile pensare come il Re ritratto non si sia reso conto che c’era una forzatura quasi insolente, una deformazione o comunque una anti-idealizzazione, quella che oggi ci pare quasi una caricatura. Non lo vedeva, non lo capiva, oppure coraggiosamente lasciava libero Goya di esprimere quello che voleva? È un quesito importante…

JLN: Non lo so affatto. Mi ricordo di aver letto… ma qui, davvero, non ho le conoscenze storiche sufficienti adatte per dire quale sia stato il rapporto dei Re con Goya, per risolvere questo enigma. Non lo so.

MV: Ma è un tema che potrebbe toccare, incontrare i suoi interessi oppure no?

JLN: Certo, è un problema grosso, al quale mi piacerebbe interessarmi, se ne avessi il tempo. Semplicemente noto, così, che nella storia della pittura, ad un certo punto si stabilisce come un realismo, anche della bruttezza, che diventa possibile, realizzabile, accettabile. Anche se non è qualcosa di completamente nuovo, basterebbe pensare che esistono dei busti di epoca romana, di alcuni uomini vecchi, che sono decisamente e totalmente piuttosto brutti.

MV: Beh, poi possiamo pensare anche alle deformazioni delle caricature di Leonardo, di Lomazzo, i volti grotteschi degli Accademici della Val di Blenio e i Rabisch… Ma in questo caso sono volti anonimi, appunto, mentre qui si parla del Re di Spagna!

JLN: Beh, però c’è anche, come si chiama, Il duca di Urbino…

MV: Sì, Federico di Montefeltro, con il suo naso pustoloso e gibboso.

JLN: Appunto, il suo profilo, con quel suo naso adunco e non idealizzato…

MV: Tipico della cultura lenticolare e veritiera fiamminga. In quel caso, però, si trattava di un problema anatomico, di una verità rispecchiata, una sottolineatura di forza virile quasi omaggiata. Con Goya è diverso, c’è semmai la scelta beffarda ovvero il coraggio-sfida di dipingere un re nelle fattezze di un idiota, un ritardato, oppure, si pensi anche al Borbone ottuso della tela alla Fondazione Magnani…

JLN: Certo è altra cosa, e c’è un rapporto ben diverso tra un uomo brutto, che è consapevole della sua bruttezza, ma che però può imporre anche la sua bruttezza perché legata alla sua forza, e quella di un uomo stupido, con l’evidenza della stupidita, ma magari è cosi stupido da non accorgersi nemmeno del ritratto della sua stupidità!

 

(Fine)

 

(Traduzione Maraia Contardo Bocchia e Marco Vallora)

 

 

21-06-2014 | 02:31