La colpa è tutta di Ryan Mendoza

Nome irlandese, cognome ispanico, figlio di Miss Pennsylvania e di uno scrittore che ha conosciuto il successo come biografo delle celebrità, Ryan Mendoza è nato a New York agli inizi degli anni ’70. Oggi vive tra Napoli e Berlino ed è un pittore noto al pubblico dell’arte contemporanea per avere esposto nelle migliori gallerie d’Europa, da Londra a Parigi, in Germania e in Italia (foto sopra e in basso). Nel corso degli ultimi due anni le sue mostre si sono fatte più rare perché ha deciso di dedicarsi alla scrittura di un libro, recentemente pubblicato da Bompiani col titolo Tutto è mio.

Si tratta di un romanzo in forma di diario. “Berlin diary”, come recita il sottotitolo del manoscritto originale. E, volendo ridurlo ai minimi termini letterari, si potrebbe dire che è semplicemente il racconto autobiografico della vita di un artista. Ultimo capitolo di una teoria centenaria, che va da Delacroix a Chagall, da Kubin a Grosz e da Balthus a Guttuso.

La trama si dipana sullo sfondo di una città sordida, abitata da uno sciame di giovani squattrinati, con vaghe ambizioni creative, che entrano ed escono di scena come le comparse maldestre di un home movie, al ritmo degli incontri organizzati dal protagonista in cerca di modelli per le sue tele. Tranches de vie di un uomo poco comune che ha scelto una strada ai margini di quella che siamo soliti chiamare normalità.

Ma, ciò che rende la storia veramente singolare è il fulcro attorno al quale ruota tutta la narrazione, il sentimento travolgente di lui, Ryan il pittore, per la sua compagna, F. la musa. È una passione divorante, dalla quale dipende il senso di ogni cosa, che li oppone e li unisce in una coppia inscindibile, simultaneamente conflittuale e simbiotica. Il sesso, gli eccessi, i tradimenti temuti e quelli consumati, la gelosia, l’ispirazione, gli incubi, la colpa, il rimorso e le speranze, tutto è mostrato sotto una lente di ingrandimento che ne ingigantisce i contorni fino al parossismo. Senza compiacimenti romanzeschi, con un’attenzione maniacale per il dettaglio, quasi pornografica, perfino impietosa.  

Se questa cronaca affettiva, cruda e lancinante, risulta particolarmente avvincente è anche grazie al flusso di coscienza che sottende le descrizioni dei luoghi e delle persone, dei fatti e dei discorsi. In effetti, il narratore riporta con precisione ciò che fisicamente accade davanti ai propri occhi, ma, in realtà, il lettore vede le figure che appaiono nel suo immaginario. Così, la vita quotidiana con F., nella quale anche i momenti più banali sono attraversati da un’irriducibile corrente erotica, si rivela essere proprio il processo pittorico, tutto cerebrale, che dà origine ai quadri.  Possedere e dipingere diventano di volta in volta sinonimi o contrari e si confondono sotto la penna di Mendoza che, con grande sincerità, riassume nel titolo la miscela di appetito virile ed energia creativa che gli è propria. Everything is mine si potrebbe leggere My painting is everything. La pittura è la carne della realtà che l’artista vuole possedere. E il corpo di F., la donna amata, è l’anima dei suoi dipinti, realizzati, incompiuti o solo sognati.

“I libri sono quadri in bianco e nero” – ha dichiarato l’autore nel corso di una recente intervista – e questo spiega perché la sua scrittura sembra essere stilisticamente l’opposto, complementare, della sua pittura.  Tanto le sue tele sono caratterizzate da morbide velature di colore, destinate nel loro sovrapporsi ad occultare l’aspetto esplicito dei soggetti per evocarne solamente l’idea, tanto la sua narrativa è tagliente, diretta a svelare la realtà, mettendola letteralmente a nudo. Mendoza scrive in un inglese brusco, spoglio ed esatto, nel quale ogni parola viene scelta per l’immediatezza della sua verità.  Molto più vicino alla lingua urticante di Henry Miller che alle iperboli di Bukowsky. E forse è proprio il desiderio di tracciare un disegno, sia nel senso plastico sia in quello concettuale del termine, che lo ha spinto verso il romanzo. Come se, volendo “possedere tutto”, una volta immaginata l’apparenza delle cose, fosse necessario dar loro un nome per definirne i contorni. 

 

 

10-07-2015 | 14:53