La corazzata Kaurismaki
Trattando di cinema tutt’altro che commerciale il rischio è sempre quello di alimentare esclusivismo, come altrove anche in questo ambito ben poco motivato. Già dall’esotismo baltico (e non giapponese come parrebbe) del nome in questione potrebbero prodursi effetti fantozziani, con riferimento a quella famosa sentenza destinata a relegare la Corazzata Potemkim nel tedio imperituro, inducendo conseguentemente i novizi a un senso di spaesamento quando non di immediata diffidenza: “Kauri… chi?”. Eppure, a discapito dei prevedibili giudizi sommari, la poetica del regista finlandese Aki Kaurismaki è ben lontana da quelle ammuffite e autoreferenziali logge da cineforum, quelle con dibattito postumo e noia a profusione, da sorbirsi con spocchia per elitario autocompiacimento. In questione c’è, diversamente dai tronfi contorsionismi intellettuali, una retorica ingenua seppure balorda, una narrativa semplice e al contempo palesemente metaforica, che riprende sottotraccia la misura francescana dell’altruismo nel quadro di uno scatafascio “sociale” assolutamente verosimile. Redenzione sommaria e solidarietà fra reietti sono infatti temi portanti, traslati con abilità all’interno di alienanti contesti suburbani. Oltre a ciò emerge attualizzato tutto il candore pauperista delle fiabe, con tanto di imponderabile lieto fine servito fronte mare (del nord), fra cantieri navali e baracche abusive, dove si consuma, come ne L’uomo senza passato, non solo l’accettazione della sorte ma addirittura, proprio attraverso le avversità somatizzate dall’allampanato protagonista, la realizzazione di una possibile quanto precaria felicità. Visto che, come aggravante, nell’intera filmografia del Nostro non c’è traccia di sesso e la violenza è relegata ad una buffa parodia, nemmeno i luoghi comuni del mestiere critico giungono in soccorso per motivare razionalmente il piacere di quell’incedere desueto, leggero, di quella sceneggiatura tragicomica che lo scrivente vorrebbe lodare a prescindere, forse per affinità elettive - a ricordo delle sordide notti passate a vagabondare in Stazione Centrale - forse per alimentare speranze quantomeno cinefile nel consorzio umano.
Di Kaurismaki non ci restano che romanzesche caricature della realtà, tuttavia rammendate con estrema cura sul canovaccio fatalista che ne tratteggia lo stile proletario. Ritratti incarnati da tutto un giro di comparse fedeli, raccattate non si sa dove e trasformate con la bacchetta magica in riluttanti protagonisti. Si pensi per un momento alla pallida fissità sfiorita di Kati Outinen, musa del regista che non ci stupiremmo d’incrociare sotto i neon acidi di un discount, o in coda ai Tabacchi, per tentare la fortuna al Lotto. Da spettatori maliziosi ed avvezzi agli editti sub-hollywoodiani dell’opinione pubblica, permane dopo la visione un senso di stupore. Restano impressi gli scampoli di tonta rassegnazione quotidiana e l’anonimato coatto, profusi da una spaesata umanità sul lastrico, oltre al senso nostalgico del limite, quello del confine assai prossimo con l’ex impero sovietico. Quello, altresì speculare e contingente, dietro le quinte o sotto al tappeto della stereotipata efficienza nordica. Detriti umani e urbani, non meno tangibili, messi in scena per ribadire un’ironica militanza anticapitalista, si aggirano impacciati nella vana ricerca di un riscatto sociale. Scrive Goffredo Fofi a tal proposito: “… l’anarchismo del regista finlandese è un anarchismo dolce, perché egli, con i suoi protagonisti, cerca solidarietà tra gli umili e non può più credere nei possibili esiti favorevoli della rivolta”. Tra rockabilly decontestualizzato, paccottiglia dell’Armata Rossa e dozzinale vodka di straforo si consuma, con Kaurismaki, la laconica parata di sfaccendati tabagisti che, nelle diverse pellicole, finisce sovente per assumere i connotati di un deja vu, facendo apologia e ludibrio del “si stava meglio quando si stava peggio”
Dato per assodato il registro stilistico al contempo surreale e iperrealista, fatto di dialoghi sconclusionati ed indigenza esasperata ai limiti dello stucchevole, il microcosmo perennemente fuori moda narrato da Kaurismaki sembra paragonabile ad un presepe per disadattati, alla confidenziale filastrocca da carillon sul mondo migliore, impartita già dalla più tenera età e rimodulata in nostalgico refrain con il passare degli anni, quando cinismo e disillusione cominceranno a dettare le regole severe dello stare al mondo. Particolarmente in Vita da bohème, Nuvole in viaggio e Le luci della sera il codice espressivo trova felice armonia, coniugando tendenze anticonformiste come il ricorso al muto e al più scalcinato B/N, con l’efficacia “artigianale”dei soggetti trattati. Saccheggiando parecchio dalla letteratura - Dickens, Shakespeare, Dostoevskij, Céline in particolar modo - buoni e cattivi, così rigidi ed impacciati nelle rispettive parti, si supportano a vicenda trasformando in solidale pantomima antiproduttiva la lotta contro il vero nemico, invisibile ma facilmente intuibile. La lettura quotidiana di un oroscopo, per i più sempre sbagliato e ingannevole, sposta così fuori scena l’origine di ogni affanno, lasciando allo spettatore il sospetto di non essere poi completamente tale. D’altronde basta poco per finire in un film di Kaurismaki: il ritiro della patente o l’improvvisa perdita del posto di lavoro potrebbero essere requisiti apprezzati per un ruolo da protagonista.