La grazia e la bellezza ritrovate
Esiste un Cristo portacroce su tavola (cm 65 x 53), riferito al Correggio da Augusta Ghidiglia Quintavalle nel 1963 e ancora registrato da Arturo Carlo Quintavalle nel 1970, che, negli anni, è stato inspiegabilmente espunto dalla letteratura critica, talvolta indulgente su pezzi molto più discutibili. La Ghidiglia vide nel dipinto, attestato da tempo in una collezione privata, una prova della dipendenza di Correggio da Michelangelo Anselmi che, a San Giovanni Evangelista a Parma, precisamente nella cappella Bergonzi, elabora un volitivo Cristo portacroce a figura intera. Arturo Carlo Quintavalle, raccogliendo l’attribuzione del dipinto, ha osservato: “Sempre perfettamente inserirsinel momento di elaborazione manieristica senese: le mani allungate e arpeggianti del Cristo, singolarmente, concordano con quelle delle figure nell’Adorazione a Brera. Anche le tonalità calde e il colore sfumante sul volto, e sui capelli, quadrano con gli astanti dell’opera braidense”. La tavola (sopra, dettaglio; qui sotto, intera) sembra definitivamente sottrarsi a ogni desunzione prevedibile da archetipi sul tipo del Bellini, del Mainieri o di Filippo Mazzola, per avventurarsi in un’interpretazione addolcita e ingentilita del drammatico soggetto. È la visione che connota le opere giovanili del Correggio, proprio in quelmomento di passaggio da un mitigato stile Mantegna a quella inarrivabile maniera che tutto scioglie nella forma, in un languore che non ha l’eguale. Cosa avesse nella mano e nel cuore il Correggio e difficile dire, ma, perché lo esprima, non è necessario immaginarlo, coma tanti hanno fatto, a Roma. Correggio è già ben oltre, in una premonizione di sensibilità barocca che inizia ben prima del supposto viaggio a Roma. E questo lo si nota osservando la Madonna con il Bambino e San Giovannino (fig. 1) del castello sforzesco di Milano e nel Commiato di Cristo dalla Madre (fig. 2) della National Gallery di Londra, dipinti dopo il 1515. Ed è in questo momento, e a questa sensibilità, cha appartiene questo Cristo portacroce. Ne fanno fede le morbide e convulte pieghe del manto (fig. 3), lontanissime dai panneggi classicheggianti del Mantegna, e così vicine a quelle del Commiato (fig. 4), e le mani eleganti, e ancora un po’ rigide (fig. 5), esattamente come quelle della Madonna del Castello Sforzesco (fig. 6). Il volto convenzionale, e non particolarmente espressivo, bensì languido, del Cristo (fig. 7), non impedisce di avvertire una spinta innovativa rispetto a tutta l’iconografia precedente del soggetto. Correggio viaggia verso imperscrutabili orizzonti esercitandosi a reinterpretare soggetti quattrocenteschi per versarli in una lingua nuova, dei sensi e non della ragione. Questo del Cristo portacroce è un Correggio che si muove, che si scioglie, che sperimenta. E la sua restituzione alla conoscenza ci permette di affermarlo, per l’interesse oggettivo del dipinto, al di là della condivisione dell’attribuzione. E, in tempi non sempre luminosi, resta comunque una conquista.