La tragica bellezza di Heimat
Edgard Reitz è stato insieme a Wenders, Herzog e Kluge uno dei grandi rinnovatori del cinema tedesco. Nato nel cuore della Germania, nella terra da cui presero le mosse gli Unni, trasferitosi già ventenne a Monaco, anticipò gli slanci creativi e rivoluzionari del Sessantotto con la sua attività di operatore culturale. L’influenza di Godard sarà centrale nelle sue prime regie fino a quando il suo film più ambizioso, Il sarto di Ulm, del 1978, si rivelerà un sonoro fiasco. Durante l’elaborazione di questa sconfitta professionale prende la decisione di far ritorno nell’Hunsruck.
Gli anni settanta sono stati anni per tutti molto pesanti, di piombo. E non hanno mantenuto le promesse del decennio precedente. In questo particolare momento storico, in cui la crisi di identità della nuova Germania si sovrappone alla ricerca personale di nuovi stimoli professionali, il suo ritorno a casa offre l’elemento scatenante al grande progetto editoriale che da quel giorno segnerà tutta la sua carriera: Heimat.
Heimat in tedesco non significa solo patria. Se sfogliamo un qualsiasi dizionario, il valore di luogo natale si arricchisce di altri notevoli e suggestivi significati più spirituali. Il termine Heimat scava nel profondo, si confonde con la dimensione del luogo dei ricordi per arrivare anche ad identificare, in una sfera sempre più intima, anche la propria casa, avvicinandosi molto all’accezione latina di domus.
Heimat è un progetto editoriale senza precedenti per la storia del cinema europeo. La prima serie, realizzata all’inizio degli anni ottanta, è un film della durata di più di venti ore che, declinato in undici episodi, espone le vicende di un paesino immaginario, Schabbach, in cui prendono le mosse ben tre generazioni della famiglia Simon. Microcosmi in parallelo che riflettono, nel corso della pellicola, tutti gli eventi cardine della storia tedesca dal 1919 al 1982. Un paesino a metà strada esatta tra Parigi e Berlino, non troppo lontano dal borgo di Morbach che dette i natali a Reitz nel 1932.
La serie si apre con Paul Simon (solo un’omonimia) che ritorna dalla guerra. Il 1919 è l’anno dell’amara pace di Versailles che umilia la Germania di fronte al mondo. E Paul, che in trincea ha visto la morte più una volta, non si sente più legato a quella patria che ha giocato con i suoi anni migliori e decide di abbandonarla per cercare fortuna nel nuovo mondo. Anton suo figlio, come ogni Telemaco che si rispetti, incarnerà lo spirito del genius loci e sua madre Maria, il personaggio femminile cardine della vicenda, sarà il filo rosso che legherà tutte le storie private alla Grande Storia. Non a caso sarà proprio il funerale della donna che ha attraversato il secolo breve a chiudere questa prima serie, la più epica dei quattro momenti che compongono l’universo Heimat.
Il film, che riflette la cura e la preparazione dell’autore durata per anni, rappresenta il grande affresco “strapaese” del novecento tedesco. Presentato al festival di Venezia del 1984, mostrando un episodio al giorno per tutta la durata della rassegna, Heimat si rivelò un vero e proprio caso. Il film venne doppiato e distribuito dal Luce e fu seguito per l’edizione italiana dal germanista Giovanni Spagnoletti, all’epoca animatore dei cineclub di maggiore tendenza della Capitale e destinato alla carriera accademica e di direttore di festival.
Ad accrescere il mito di Heimat in Italia, il paese che dopo la Germania ha amato e valorizzato maggiormente l’opera di Reitz, si segnala, oltre al già citato rapporto con il festival di Venezia, anche l’opera di Ghezzi che, presentando regolarmente la serie in tv nelle notti del suo “Fuori Orario”, lo ha reso a tutti gli effetti un cult.
Fotografato da una luce espressionista ed “esistenzialista” in cui si alternano colore e bianco e nero, incorniciato da un mosaico di foto che, attraversando il vissuto della famiglia, si trasfigurano – grazie alla maestria della messa in scena – in sentimento universale, il film venne presentato dalla tv tedesca sotto forma di sceneggiato nell’autunno del 1984 riscuotendo grande successo. La Germania era ancora divisa e forse anche Heimat, esperienza collettiva grazie alla tv, contribuì a radicare quello spirito di identità, dignità ed orgoglio che portarono alla caduta del Muro. Ma questa è un’altra storia.