La tragica retorica della guerra
Nel tempo della (apparente) pace globale, la guerra è in primo piano nelle questioni geopolitiche. Molto meno spesso appare in prima pagina nelle cronache giornalistiche. Talvolta è taciuta per oggettivo disinteresse (economico) dell’Occidente (leggi: Africa). In altri casi ha provocato una triste assuefazione (leggi: conflitti tra Israeliani e Palestinesi). Ma, non di rado, dal Kosovo all’Afghanistan, ci ha riguardato direttamente. E noi l’abbiamo chiamata “missione di pace”.
Un parallelo tra storia antica e storia contemporanea può dire molto su come è cambiata la liturgia del potere e altrettanto su come sia rimasta invariata la sua intima essenza.
Prima scena, dal “Dialogo dei Meli” di Tucidide, uno dei padri della storiografia greca: un autentico pezzo di teatro, che spiega bene i meccanismi del potere, costruito sulla tecnica tragica del botta e risposta. Il contesto è quello della Guerra del Peloponneso, seconda metà del quinto secolo a.C. I Meli, la popolazione di una piccola isola che fa parte dell’impero ateniese, non vogliono essere più sudditi e tributari della città greca: ma semplicemente amici nei loro confronti e neutrali in guerra. Tra l’altro, le loro radici sono spartane e la loro speranza (vana) è che l’antica madre patria, nemica di Atene, venga in loro soccorso. Il dialogo è un capolavoro di tensione teatrale, fondato sul botta e risposta. Da una parte, le ragioni della forza imperialista, che rinuncia alla maschera della giustizia. Dall’altra le ragioni del debole, che si appella a tutto quello che la sua dignità gli suggerisce (dall’onore all’etica), ma inutilmente. I Meli finiranno brutalmente sterminati.
Scena seconda: 2003, guerra in Iraq, l’Amministrazione Bush decide che il dado è tratto. E attacca. Il motivo? Tutelare la sicurezza del mondo. Solo molto dopo si saprà che la motivazione alla base del conflitto è infondata.
E dunque? Come ha ben spiegato Alessandro Baricco in Palladium Lectures, i concetti in gioco nel “Dialogo dei Meli” (e – aggiungiamo - nella Guerra in Iraq come nella gran parte dei conflitti bellici contemporanei), sono due: la giustizia e la giustezza. Quello che intendiamo come giusto, tutelato dal diritto. E quello che invece è esatto, corrispondente ai naturali rapporti di forza. Gli Ateniesi gettano la maschera: sono più forti e lo rivendicano con una lucidità raggelante. Certo non avrebbero avuto bisogno di inventarsi le armi di distruzione di massa per attaccare Saddam Hussein.
E sta proprio qui la differenza: oggi, a differenza di ieri, la ragion di Stato, geneticamente modificata, ha bisogno di ammantarsi di una liturgia che rassicuri e si costruisce l’alibi morale per la guerra. Che, infatti, si trasforma nel suo contrario: un’operazione di pace. Morale: le parole cambiano (addirittura ribaltano) il mondo. E anche la guerra. Ma la liturgia del potere non può, non vuole cambiare la sostanza: schiava dell’esasperata ricerca del consenso, si accontenta della forma.