L'amabile leggerezza di Paolo
Di contro alle tre P stampate sulla felpa, oramai araldico emblema del citazionista seriale pasoliniano, resistono stoicamente le due P di Paolo Poli. Chissà, forse ricamate sulle babbucce. Un raffronto certo forzato, ma forse utile per qualche riflessione sull’eterno scontro tra forma e contenuto. Se per evocare Pasolini - sempre più a sproposito e sempre più aggrappandosi maldestramente alle iconografiche foto in bianco e nero da suburra romana - occorre impantanarsi nel rigore antimoderno, nella contro-morale di un libertino che giocava a nascondino con la morte e con il fuoco del suo tempo censore, l’amabile leggerezza dell’attore toscano classe 1929 giunge invece soave, come balsamo loquace per tutti. Scomodi o accomodati che siano i plaudenti in sala.
Perché ciò che Pasolini non ebbe la fortuna d’intuire, con i suoi seriosi giudizi, risiedeva proprio nella capacità di giocare con le maschere; il rifiuto integerrimo di tergiversare nella raffinata virtù, sovente snobbata dagli intellettuali, di arabescare sul vissuto, a tutto vantaggio della propria salubrità mondana. Nient’altro che trucchi, i medesimi che celano in sotterfugi sempre cangianti il peso della vita; questo davvero gli fu fatale, l’impatto non mediato con la realtà. Si tratta per l’appunto di quell’effimera parvenza da giocoliere della parola, di una propensione allo scetticismo ondivago, che Paolo Poli ha invece portato avanti, per più di cinquant’anni, nei teatri italiani. Teatri sempre pieni, prestigiosi o periferici, di città o di campagna, teatri comunque, come condizione ambulante, incipriata da uno scafato saltimbanco, narratore di fiabe per grandi e piccini.
Paolo Poli, fiorentino a prescindere, già dalla meravigliosa parlata impastata d’italiano primigenio, è la saggezza del saper vivere con apparente disimpegno. Egli, popolare e giammai popolano, è la seduzione dell’eleganza formale fine a se stessa, divertente senza le tedianti pretese di convincere il prossimo su alcunché. Sentirlo parlare di cavalli a dondolo e divise, case chiuse, suore e fughe dannunziane, divieti e condoni, convenzioni relazionali e piaceri clandestini, ci affascina e blandisce principalmente per la forma aneddotica, per l’estro, per il suono delle parole che irretisce maliziosamente. C’è, nel suo codice, tutto il classicismo poetico tricolore (Pascoli, Carducci, Leopardi), la fanciullesca memoria del Corriere dei piccoli, ma pure l’aroma funambolico di certe suggestioni futuriste (Palazzeschi) ed il relativo gusto per il calembour parolibero. C’è, infine, la sentenza sprezzante dello snob: “scrivono tutti oggi, soprattutto i mediocri” (un tremolio del dito sulla tastiera).
L’attore è cattivissimo, ma può permetterselo, in quanto con papillon elegante e sorriso furbo, tralascia le sentenze in favore di una narrazione eccelsa, accomodante ed affabulatrice; demolendo con sagacia l’automatismo dell’appartenenza ideologica, l’obbligo nei confronti della corporazione di riferimento, Paolo Poli ha tutto lo stile necessario per non far pesare ad altri – alla fantomatica collettività - la propria condizione di “caso a parte”. Ognuno è in fondo un caso a parte e proprio qui il sarcasmo del teatrante affonda il coltello nel ventre molle dei pachidermici moralismi. Lo fa attraverso un intrattenimento ironico quanto demodé, da operetta, sovente camuffando la naturale grazia con travestimenti d’ogni sorta. Lo fa dall’alto di una cultura estesa ma buttata lì come se fosse appendice della recita, orpello di una sapienza il più delle volte iniettata, con il sac à poche linguistico, in pasticcini dolcissimi e velenosi; in aneddoti tentatori: uno tira l’altro, tanto che piacerebbe sequestrarlo, per lo spasso di poterlo avere in salotto all’ora del tè.
Si riascoltano sempre con piacere, ad esempio, le sue affermazioni reazionarie a proposito della questione dei diritti civili. Da omosessuale, parimenti a Franco Zeffirelli e Aldo Busi, Paolo Poli disdegna gli aspetti collettivistici ed in fondo piccolo borghesi della battaglia neo-familista. Illuminanti queste sue parole a proposito: “È noioso! Dice: hai messo tu il sale nella pentola? Potrei impazzire. Credevo che questo fosse il secolo del sesso, invece è il secolo della cucina”. Con ciò intendendo proprio quella deriva domestica – da focolare tradizionale, traslato in tv da tutto un pentolame ribollente - sempre avversata dai pederasti ed ora divenuta ossessione da timbro e schedatura normalizzante. Quindi, ora che tutti corrono appresso ad un laicismo dai severi connotati moralistici (o totalitari?), qualcuno si diverte ancora a scegliere la direzione contraria: c’è un carro di passaggio trainato da somari? Saltiamoci sopra come Pinocchio, incuranti della meta che nel peggiore dei casi sarà un paese di balocchi. Tutto fuorché la noia delle carte bollate e del suggello statalista.