Le parole sono importanti!
La domanda avrà toccato chiunque: quant’è questo altro? È molto altro? E altro dove?
L’Accademia della Crusca dice che l’espressione nasce negli anni Ottanta (su Repubblica, nel 1984, ci sono 17 “quant’altro”, Serianni lo colloca nel XIX secolo) per conoscere una crescente fortuna (nel 1996 sul Corriere ce ne sono 71, l’anno dopo 119. Repubblica, nel 2005, ne conta 407), perciò possiamo stare sicuri che almeno questo, in quanto italofoni, lo condividiamo: non sappiamo com’è fatto il continente del “quant’altro”. Sicuramente dev’essere molto esteso. E la sua fauna dev’essere eccezionale, visto che è così insolita e varia che l’interlocutore non ce l’ha sulla punta della lingua e deve comprimerla in un “quant’altro”.
“Ma come fa a non piacerti Sorrentino? Con quelle belle immagini, i carrelli, i dolly, le signore botulinate, nani, ballerine, il Bianconiglio, Diego Armando Maradona e quant’altro”. Il “quant’altro” è, dunque, anche un indice di vaghezza. Da questo punto di vista, il suo opposto perfetto è il “io solo una cosa dico” che affiora qui e lì nei discorsi complessi, quando l’interlocutore ipocefalo è sopraffatto dal dispiegamento del discorso col conversatore e si rintana nell’assoluta determinatezza di quell’unica cosa che sa e reitera.
Ma se per il piattoloso “solo una cosa so” c’è rimedio (la fine programmata della conversazione), il “quant’altro” è pernicioso perché sottende una lunga arringa ed è sgradevole perché conserva il lezzo questorio che lo partorì. Non ci si può divincolare facilmente, perché il “quant’altro” colpisce a tradimento, ma forse è possibile ritorcerlo contro l’interlocutore. Infatti, ogni volta che si ode “quant’altro” (o “quant’altri”, che è lo stesso), si potrà ricorrere a un aforisma di Cioran. Uno qualunque, di un qualunque libro di Cioran. Si immaginino, dunque, le seguenti doppiette dialogiche (tratte da Squartamento).
“E siccome non m’importa di fascisti, comunisti, radicali, socialisti e quant’altro...”.
“Se le onde si mettessero a riflettere, crederebbero di avanzare, di avere uno scopo, di progredire, di lavorare per il bene del Mare, e finirebbero coll’elaborare una filosofia sciocca quanto il loro zelo”.
“Siamo andati da Mario, al Corso, non ti dico: c’era la pasta con le telline, il carpaccio di spore, e poi un’ernia di dolci, caffè, biscotti, cioccolata, caramelle, liquirizie e quant’altro. Tanto vado in piscina e brucio tutto”.
“La speranza è la forma normale di delirio”.
“Bungee jumping, trekking, fisting, rafting e quant’altro: non mi nego nulla, io!”.
“Non appena si esce per strada, alla vista della gente, sterminio è la prima parola che viene in mente”.
Questa strategia dovrebbe rivelarsi vincente. Ma, per amor di giustizia, dobbiamo anche sottolineare che esiste un uso lecito (intellettualmente lecito, ci s’intenda) di quant’altro: quello del sacrosanto sprezzo verso l’idiozia. Un esempio potrebbe essere la frase di un fine cronista di sommessa ironia e smagliante sagacia, il quale un giorno profferì l’immortale frase riguardo un’iniziativa “sponsorizzata da Tizio, Caio, e quant’altri”.