Le sliding doors di James Joyce

Ci sono risvolti nelle vite di artisti a noi noti per meriti consolidati, molto illuminanti su quanto vaste e insospettabili possano essere state le loro potenzialità altrove. Chi ha letto Joyce ricorderà forse i riferimenti sparsi nell’Ulisse all’Opera italiana (frasi da arie, nomi di opere e di cantanti), chi ne conosce la vita saprà del suo sincero amore per questa bellissima arte, e che i nomi dati ai figli, Giorgio e Lucia, vengono dal suo repertorio. Ma la vicenda del Joyce musicista va ben oltre.

Joyce prese in seria considerazione la possibilità di tentare la carriera di cantante professionista dopo il primo periodo a Parigi, alla fine del 1903, e tornato a Dublino prese lezioni di canto da due maestri (uno italiano, tal Benedetto Palmieri) per concorrere, l’anno seguente, al Feis Ceoil, prestigiosa competizione canora irlandese, e molto probabilmente qui conobbe John McCormack, già vincitore dell’ultima edizione. Joyce arriverà terzo, essendosi rifiutato di prender parte alla prova di lettura a prima vista, e McCormack vinse di nuovo. Tuttavia, le chance per il primo premio c’erano e il presidente della giuria (altro italiano, Luigi Denza) era già convinto di aggiudicarglielo; stando infatti a resoconti di contemporanei, la voce di Joyce non era da meno di quella del suo concorrente, ma decise di non continuare con le lezioni e abbandonò le prospettive di carriera. Da quell’esperienza nacque una lunga amicizia tra i due, che cantarono assieme un’ultima volta, il 27 agosto di quell’anno, sempre a Dublino.

Di lì in poi, la carriera di quest’ultimo crebbe fino a renderlo stella di prima grandezza del Metropolitan Opera di New York e non soltanto, dando concerti davanti a folle enormi per anni; un vero divo sul palcoscenico e alla radio, che in quegli anni stava diventando veramente di massa, voce della nostalgia degli innumerevoli irlandesi emigrati negli Stai Uniti. Di lui abbiamo diverse registrazioni, di come cantasse Joyce possiamo solo fare congetture su una voce che è giunta fino a noi, ma intenta a leggere frammenti dei propri lavori. Visto l’esiguo scarto che decise i loro destini, possiamo immaginare una voce adatta al repertorio italiano, di tenore lirico, chiara e di certo ben impostata, guidata da talento in musicalità e fraseggio.

Inevitabili ipotesi sul Joyce cantante anziché scrittore tentano chiunque, seppur scontate e inutili, ma per capire quanto fosse solida l’idea di un James Joyce tenore affermato a grandi livelli e il valore del termine di paragone costituito da McCormack, si pensi a cosa disse la moglie Nora ad Italo Svevo - loro amico - negli anni’20 durante, il periodo trascorso a Trieste: “Gli ho sempre detto che dovrebbe smetterla di scrivere e prendere a cantare. E pensare che è stato sullo stesso palco con John McCormack!”. Come a dire che dovrebbe pensare seriamente al fatto che ha famiglia e di fare quel che sa fare per lavorare e mantenerla, mettere la testa a posto: questo sì rende molto accesa la curiosità a proposito di come cantasse, ma salvo scoperte miracolose nell’archeologia della registrazione, non ci è dato saperlo. Dell’amico rivale, che lo precedette di anni nell’affermazione e nella fama, Joyce lasciò tracce – esplicite o meno – in diversi lavori, specie in Ulisse e in Finnegan’s Wake.

Altro cantante importante per Joyce fu, anni dopo, un altro tenore irlandese, cresciuto in Francia: John O’Sullivan, noto soprattutto come Gugliemo Tell rossiniano, dalla voce estesissima e dagli acuti potenti e luminosi. Il loro incontro avvenne a Parigi nel 1929, e in Joyce nacque una vera e propria ossessione, essendone una persona incline. Prese a scrivere un mare di lettere per promuovere O’Sullivan presso importanti teatri e direttori d’orchestra, denunciò complotti per ostacolarne la carriera, insistette perché abbandonasse la “O” nel proprio cognome, ritenendola antimusicale. In una recita di Gugliemo Tell contò addirittura le note acute emesse dal cantante: “Ho scoperto che Sullivan canta 456 Sol, 93 La bemolle, 54 Si bemolle, 15 Si naturali, 19 Do e 2 Do diesis. Nessun altro ci riesce”. Forse la cosa più curiosa e umanamente simpatica è il saperlo impegnato nell’organizzare clàques di irlandesi all’Operà a cui lui stesso prese parte urlando incoraggiamenti al proprio protetto e insulti ai suoi rivali italiani. Come un loggionista dei più infervorati, ossessionato da un personaggio sulla scena a cui vorrebbe tanto somigliare.

 

 

21-06-2014 | 11:24