Lessico di guerra
Cosa vuol dire appropriarsi di una parola? Utilizzare un linguaggio? Parlare secondo un codice linguistico condiviso dalla maggioranza delle persone? Significa rivendicare un senso di appartenenza e nel medesimo istante soddisfare la necessità emotiva e psicologica di far parte di una comunità. La comunità alla quale un individuo sceglie di aderire, sviluppa al suo interno un sistema di valori, che induce alla creazione di modelli di comportamento assunti dallo stesso individuo perché ritenuti condivisibili, per i suoi interessi personali e per l’equilibrata convivenza sociale in seno, appunto, alla comunità stessa. Il linguaggio diventa allora una convenzione, un codice per esprimere i bisogni, i desideri, le aspirazioni, i sentimenti dell’individuo e al contempo della comunità di appartenenza in cui quelli dell’individuo vengono riflessi, rappresentati, quindi “condivisi”. Il grado di condivisione comporta il maggiore o minore senso di appartenenza del singolo al gruppo. Così vale per il livello di adesione e condivisione linguistica.
Nei casi in cui le condizioni di vita si presentano in alterazione rispetto a un ideale di equilibrio, individuale e collettivo, una delle prime cose che cambia è il comportamento; poi, il linguaggio. Il linguaggio, essendo uno strumento di comunicazione, è un comportamento ed è così connaturato all’essenza dell’uomo per cui non è possibile ch’egli non comunichi.
Se queste sono le premesse, ciò che attualmente è per noi fonte di preoccupazione e perplessità è la tendenza a una comunicazione sclerotizzata, a circuito chiuso, in cui il messaggio è ridondante, ossia sempre più enfatizzato e ripetitivo. Caratteristiche di comunicazione che tendono a creare interazioni paradossali con effetti collettivi nevrotici e psicotici. Ecco, allora, l’utilizzo di parole, perifrasi, formule linguistiche, ritornelli (non intendiamo quelli canori), che attingono a un pozzo semantico da propaganda bellica.
Da quando è stato dato il via all’emergenza sanitaria, la frase più ripetuta dalle autorità è «siamo in guerra», a cui seguono perifrasi quali: «lotta contro il virus», «dobbiamo vincere la battaglia uniti, altrimenti perderemo tutti»; quindi vocaboli come: «sconfiggere», «vittime» (termine utilizzato erroneamente come sinonimo di “morti” e non come persone colpite dalla malattia, quindi non necessariamente decedute), «bollettino di guerra», «nemico pubblico», e, a seguire, «prima linea», «fronte», «paura», «coraggio», solo per fare qualche esempio.
Anche i paragoni a cui si ricorre per spiegare la grande crisi economica che sta colpendo il nostro Paese, ma che si sta estendendo a tutto il mondo, sono della stessa derivazione. La descrizione ricorre, ovunque, senza eccezioni né variazioni linguistiche, con addirittura immagini storiche, al parallelismo relativo allo scenario dell’immediato secondo Dopoguerra. Aggiungendo all’analisi un dato ancor più negativo, che attinge sempre dalla stessa matrice e dallo stesso periodo, ossia che non sarebbe sufficiente un Piano Marshall per risollevarci.
Tutto ciò dimostra che il nostro sistema logico, la nostra capacità di analisi, sta attingendo da quelle esperienze passate che più si avvicinano alla situazione attuale, la quale è tuttavia completamente diversa. La vita dell’uomo è, come allora, minacciata, ma in maniera del tutto differente. Da un ruolo di minaccia attiva, in cui l’uomo (*l’essere umano, s’intende) era il principale personaggio dell’azione ed egli stesso costituiva una minaccia di vita per un altro uomo, unica e diretta manifestazione della guerra, si è passati ora a un ruolo totalmente passivo. Oggi l’uomo sta subendo, senza poter agire, se non con azioni e comportamenti che non possono essere aggressivi e bellicosi, ma del tutto contrari a tali attitudini, come: isolamento e solitudine, solidarietà, attenzione alla sicurezza personale, da cui deriva quella collettiva, salvaguardia e cura della salute (residua), cura degli affetti e della persona, partecipazione emotiva collettiva, ossia condivisione, empatia, in un'unica parola quella Pietas romana in cui noi, oltre all’amore legato alla cerchia degli affetti personali e alla società civile, contempliamo anche l’amore verso Dio. Tutto ciò in uno stato di sostanziale “non azione”, e soprattutto non azione guerresca, laddove, invece e ad esempio, continua ad arrivare la suprema e paradossale riprovazione di un sindaco di provincia, che sui social inveisce: «Lo volete capire che siamo in guerra?! E dovete stare a casa?!». Data la contraddittorietà del messaggio è probabile che non venga del tutto compreso o che venga sottovalutato per la sua inadeguatezza e ambiguità denotativa, perché la guerra non c’è. E se ci fosse, forse, non ci obbligherebbe a una così ferrea segregazione, quanto piuttosto a una fuga in luoghi più sicuri. Il dramma dei profughi è connaturato alla condizione bellica, oppure ancora ci “obbligherebbe” a lavorare per essa, riconvertendo le nostre mansioni.
L’immane catastrofe che si sta verificando non ha un linguaggio proprio. Si è “costretti” a utilizzare e ripetere, senza lo sforzo di crearne uno appropriato, un vocabolario che fa riferimento alla sopraffazione dell’uomo sull’uomo, al suo più esecrabile comportamento di violenza, l’omicidio e, appunto, la guerra, mentre non è questo ciò che sta accadendo. È tuttavia la minaccia alla propria vita, quindi la paura, che potrebbe indurre a tale erronea associazione. Il processo di superamento della paura comporta la necessità di nominare, di dire, di razionalizzare, ma la parola “pandemia”, pronunciata con riguardo e timore, quando tutti sembravano invocarla a gran voce, non è bastata, non è stata sufficientemente convincente, da cui per necessità sedativa si preferisce al suo posto la definizione “guerra”.
La paura nasconde all’uomo i suoi pensieri e le sue sensazioni, e in una condizione di paure consce ed inconsce universalmente e palesemente diffuse come questa, la comunicazione difficilmente risulta aperta, consapevole e soprattutto libera. Nella comunicazione ufficiale e pubblica, come in quella privata, i nuclei familiari delle case, vengono custoditi grandi e piccoli segreti, che originano una comunicazione progressivamente simulata, inibita e mascherata, fino a raggiungere la comunicazione dell’ignoto, di ciò che non si dice, perché non si sa, ma il cui contenuto ignoto comunque non riesce più ad essere celato, poiché tradito appunto, dal comportamento, da un malcelato nervosismo, dalla preoccupazione del volto, dalla reticenza verbale o addirittura dalla stessa e diretta ammissione di non conoscenza.
La mancanza di un linguaggio adeguato per parlare di ciò che sta accadendo, e la necessità di attingerne a un altro, attraverso accostamenti impropri, indica la totale inesperienza dell’evento su cui e dentro cui stiamo già stabilendo interazioni di comunicazione linguistiche e non. Tuttavia non possiamo fare a meno di creare interazioni di comunicazione, proprio perché ciò che stiamo vivendo, lo stiamo vivendo, ne stiamo facendo esperienza per la prima volta. Il paradosso linguistico nasce dal fatto che, pur senza aver avuto in precedenza esperienza simile, comunque ne parliamo, interagendo a livello comunicativo in maniera sostanzialmente ambigua e caotica e a livello linguistico, secondo una modalità che non potrà essere del tutto aperta, chiara e intellegibile. Mancano appunto le codifiche linguistiche per la straordinarietà dell’evento. Un tale lacuna linguistica dovrebbe essere progressivamente colmata nel corso di questa esperienza, dalla capacità di compiere un’analisi approfondita su quanto sta accadendo, ma soprattutto dalla necessità impellente di comprendere la natura del fenomeno, in relazione alla comunità globale che lo sta vivendo e del singolo individuo che appartiene a quella comunità. Poiché già si mostrano i primi segnali di sovversione comunicativa, già per altro in atto prima di questa esperienza, da cui false notizie, l’aumento della censura, l’aumento degli episodi di hackeraggio, il ritardo dei provvedimenti, il rifiuto degli scambi comunicativi complementari e il loro spostamento sull’asse simmetrico. Quest’ultima situazione si sta verificando sempre più nel versante politico, a tutti i livelli della gestione della res publica, laddove il governato si pone sullo stesso piano di colui che lo governa, poiché, pur essendo il governato a conoscenza della diversità dei ruoli e del maggior potere politico sociale del governante, tende sempre più a spezzare il codice e l’accordo di convivenza sociopolitico legato al riconoscimento dell’autorità e dei suoi derivati.
Capire la funzione ontologica della condizione in cui ogni individuo si è improvvisamente ritrovato a vivere, ossia il modo in cui la malattia, la minaccia della malattia, il pericolo della morte, le morti annunciate, l’isolamento e l’autoisolamento, la limitazione della libertà, hanno fatto irruzione nella nostra vita cambiandola in maniera radicale ed improvvisa e nel nostro essere, sarebbe comprendere più lucidamente lo stato precario, ma di indubbia trasformazione in cui ciascun individuo si ritrova ad affrontare l’attuale momento.
Bisognerebbe creare nuove categorie di pensiero con l’aiuto, assieme, di uno psicologo, un sociologo, un esperto di comunicazione, un teologo, un filosofo. Anche un fisico, perché no. O meglio, bisognerebbe creare nuove categorie di valutazione, o per lo meno cominciare ad analizzare un “sistema” che nel singolo soggetto e nella comunità non è più quello di prima, e li rappresenta più, attraverso la formulazione di nuovi parametri, in cui le ritualità sociali, ad esempio quelle maggiormente legate all’intima sfera affettiva, spirituale dell’uomo sono saltate, o temporaneamente sospese, mentre già se ne stanno creando, se non di nuove, almeno di sostitutive.
Linguistica, sociologia, filosofia, mezzi di comunicazione dovrebbero tendere ad una nuova “narrazione”, al fine di proporre una più realistica cronaca e descrizione di questo cambiamento.
Ciò sarebbe favorevole per una spiegazione del momento attuale in cui nessuno si è ancora cimentato, se non attraverso sistematici grafici di tendenza di espansione del virus, delle Borse, del debito di Stato, che non spiegano, non analizzano, non compiono un esercizio critico e interpretativo della situazione, ma cercano di mostrarlo com’è, pur sapendo che la complessità e la moltitudine di aspetti del fenomeno sfugge loro. Il risultato, data ormai la ripetitività delle informazioni, è che tutti gli strumenti di comunicazione di massa fungono da cassa di risonanza del fenomeno stesso, espandendo in un’eco ormai assordante e caotica, che attutisce la paura senza risolverla, macina le cervella e le stressa ancor di più.
Fin da ora sarebbe necessario il lavoro di analisi e comprensione delle discipline umanistiche, per non arrivare con un ritardo che sarebbe fatale all’uomo, affinché si cominci a capire in che cosa consiste la trasformazione che l’uomo sta vivendo, come la sta vivendo, e affinché abbia strumenti più opportuni per definire la propria attuale condizione e il proprio essere in essa, senza speculazioni dietrologiche né profetizzanti. Hic et nunc.