L'eterna legge del più forte
In un bel film franco-canadese, “Monsieur Lazhar”, il professore, un algerino rifugiato in Québec, vuole spiegare ai ragazzi di prima media che cosa sia l’ingiustizia. Non serve troppa teoria: basta leggere la celebre, eterna favola del lupo che vuole mangiarsi un agnello. Per riuscire nel suo intento, prima lo accusa di sporcare l’acqua che sta bevendo (ma la timida bestiola si trova più in basso lungo ruscello…), poi gli rinfaccia un torto subito sei mesi prima (ma l’altro non era ancora nato…), e, alla fine, a corto di argomenti, sbotta, sostenendo che il torto l’ha subito dal padre! Così lo aggredisce, senza più nemmeno camuffare la violenza con il diritto. Spiegazioni? Inutili. I bambini capiscono subito di che cosa l’insegnante si stia parlando.
Ora, se si passa dal mondo degli animali a quello degli uomini, la questione si fa più complicata. Ma il meccanismo – radicato, ancestrale – resta lo stesso: sono più forte? Allora impongo la mia legge. Lo farò cercando una giustificazione, ma, siccome nel profondo gli uomini restano animali, mi sentirò in diritto di farlo. Fedro, il favolista latino vissuto nel I secolo d.C., pone la storia del lupo e dell’agnello in apertura della sua opera. Perché sa bene che cosa voglia dire mettersi contro i potenti: lui, schiavo liberato, che appartiene ai ceti subalterni, si è attirato, per le sue favole, l’odio di un potente, Seiano, il temibile braccio destro dell’imperatore Tiberio. Ed è stato condannato – racconta – con un processo farsa per un ignobile reato mai commesso.
Ecco allora che, ieri come oggi, il potente, anche se sa che deve mascherare la violenza con qualche scusa o pretesto, non accetta di sottostare alle leggi. E le forza, gridando al complotto.
Il discorso è trasversale alle epoche e alle latitudini; può assumere cioè un valore universale. E tuttavia in particolare illumina una certa mentalità tipica del Belpaese. Spiegando, in radice, perché l’Italia è eternamente divisa in tifoserie che vogliono annientare il nemico, calpestando ogni regola e ogni legge.
Nel 1958 Banfield, dopo uno studio condotto in un piccolo centro dell’Italia meridionale, osservò il “familismo amorale” tipico dello Stivale. Semplificando: avvantaggio, con tutti i mezzi di cui posso disporre, me e la mia famiglia, perché tanto tutti fanno così. Insomma, saremmo un popolo fatto di piccole tribù l’un contro l’altre armate. Ecco, ancora una volta, rispuntare la legge del più forte. Il bene comune? Un concetto buono per i discorsi pubblici. Magari di quegli stessi politici che, per primi, non accettano le regole ma le combattono. E probabilmente non le capiscono mai fino in fondo, non avendo quasi mai necessità di capirle, fino a quando qualche giudice s’interessa di loro. Del resto, come sostiene La Fontaine alla fine della favola citata sopra, “la ragione migliore è sempre quella del più forte”. Chi potrebbe dubitarlo?