L'irrinunciabile tentazione del selfie
Parliamoci chiaro, nessuno ne è immune. Anche chi ha in odio qualsiasi tipo di autoritratto e ogni tipo di condivisione della propria immagine può ritenersi al sicuro da questa tentazione.
Si tratta di una parolina inglese forse traducibile in italiano come autoritratto, ma che deve la sua esistenza ad uno dei sette peccati capitali amplificati, però, dall'uso smodato dei social network.
Si chiama selfie e secondo l'Oxford English Dictionary, il dizionario inglese più autorevole del mondo che l’ha nominata parola dell’anno 2013, si tratta di una “fotografia fatta a se stessi, solitamente scattata con uno smartphone o una webcam e poi condivisa sui social network“.
Insomma, a quanto pare nulla di altamente nocivo. Sta di fatto che negli ultimi mesi, tutti ma proprio tutti sono stati soggetto od oggetto di questa nuova moda del ventunesimo secolo, coltivata ovviamente dalle persone del mondo dello spettacolo, fino a contaminare i potenti, a ridicolizzare i capi di stato e desacralizzare impietosamente anche il Romano Pontefice e sua Santità il Dalai Lama.
Nulla di male per carità nel cedere alla vana gloria e immortalarsi in un autoscatto. Una tentazione nata con la stessa fotografia, impressa nella vanità femminile di Anastasia Nikolaevna. La tredicenne granduchessa russa, infatti, in un anno imprecisato dei primi del Novecento, prese la sua nuova Kodak Brownie e posizionandosi davanti allo specchio con un amico scattò. Nella lettera che accompagnava la fotografia, ha scritto: “Ho scattato questa foto di me stessa guardando allo specchio. Era molto difficile perché le mie mani tremavano”.
E sembra inutile qui menzionare i tanti autoritratti che ancora oggi affollano le gallerie dei musei di tutto il mondo come pure gli affreschi che adornano le più importanti chiese della cristianità.
Sembra proprio quindi che il nostro selfie sia una moda fastidiosa forse, ma del tutto innocua. Ma fino ad ora non è stata presa in considerazione la seconda parte che l'Oxford English Dictionary offre della nostra parolina. Perché il selfie, non solo cede alla tentazione che fu di Narciso, come di Raffaello, della nostra duchessa Anastasia e di tanti altri. Il selfie per essere veramente tale ha bisogno di una cassa di risonanza potentissima per l'amplificazione del proprio ego che sono i social network. Il selfie insomma non è un semplice e innocuo autoritratto, ma una foto di sé da postare, condividere, linkare nel mondo della rete che però è e resta virtuale, cioè evanescente, effimero, inconsistente.
Riassumiamo allora: la vanità spinge da sempre l'essere intelligente a rispecchiarsi e godere della propria immagine. Un godimento che certo cede alla tentazione della vanità. “ vanitas vanitatum, omnia vanitas” recita il libro sacro del Qouelet, per ricordarci che la vanità è alito leggero, soffio effimero, precario e vuoto. Ma questi aggettivi, forse, sono sinonimi di virtuale, qual è il mondo del web che di fatto non esiste se non in precarie connessioni elettriche.
Ecco allora il pericolo legato indissolubilmente al selfie: una vanità moltiplicata al cubo, che gode dell'effimero amplificato a sua volta dall'effimero per antonomasia, il mondo dei social network: una rete sociale, volendola tradurre in italiano, che però si basa sull'inconsistente e irreale mondo della rete.
Perché parliamoci chiaro, forse anche Raffaello si compiacque molto nel vedersi autoritratto nella famosa tela conservata agli Uffizi. Come anche Federico di Montefeltro passava forse molto tempo a rispecchiarsi nel ritratto col naso mozzato dipinto da Piero della Francesca. E che dire dell'umile compiacenza che sicuramente provava Michelangelo vedendosi ritratto nella pelle di san Bartolomeo nel Giudizio Universale della Sistina?
Vanitas vanitatis certo, ma comunque reale, tangibile, concreta tanto che ancora oggi milioni di persone pagano per ammirare simili vanità.
Nulla a che vedere invece con i futili scatti – che poco hanno di artistico – di divi o semi-divi appena svegli, o immortalati nell'estasi – anche questo accade, si chiamano aftersex – che segue un orgasmo; oppure autoritratti di chi aspetta l'autobus o mangia un panino o beve un caffè. Banali, futili e tristemente solitari scatti, di cui però ci si compiace attendendo bramosi il compiacimento della rete. Che ne rimarrà di tutto questo? Sicuramente poco o nulla. Ma d'altronde che ne rimane di quell'immagine riflessa nell'acqua di cui Narciso si innamorò? Assolutamente niente eppure è per quel fragile riflesso che il nostro Narciso perse la vita.