McQueen significa tradire le regole
Rievocazioni senza fine nel mattatoio del lusso Made in England per Lee Alexander McQueen, trovato impiccato nella sua abitazione londinese nel febbraio del 2010 a quarant’anni, il giorno prima del funerale della madre. La moda aveva perso lo stilista più visionario, quello che l’aveva cambiata con una lezione che ha segnato colleghi ed epigoni. Una creatività dalla memoria storica, stimolata anche dalla potenza dei suoi incubi che lo avrebbero presto portato al suicidio.
Repulsione per le interviste, stanchezza nel raccontare la storia del figlio di un tassista, di bambino dall’aria singolare, di ragazzo paffuto dall’aria riservata che lascia la scuola a sedici anni per diventare un apprendista sarto, varcare le frontiere, lavorare in Italia, tornare indietro per frequentare i corsi di moda nella prestigiosa Central Saint Martins di Londra.
Nel 1996 McQueen divenne il direttore artistico di Givenchy a soli ventisette anni. Un giovane uomo con un taglio di capelli monacale e una faccia da bambinone pallido, dallo sguardo freddo e dalla lentezza sobria e sicura dei gesti tipica degli inglesi, saliva sul pulpito del lusso e vantava: "Quando sarò morto e sepolto, la gente saprà che la moda del ventunesimo secolo è iniziata da Alexander McQueen".
Nel 1992 presentò la prima collezione con il proprio nome. Isabella Blow, una stilista freelance che in seguito divenne uno dei grandi nasi, in ogni senso, del mondo della moda, comprò la collezione nella sua interezza. Più tardi il gruppo Kering decise di investire sul suo stile acquistando la maggioranza delle azioni dell’azienda che portava il suo nome. Blow e McQueen furono inseparabili per alcuni anni, poi, con il dilagare della fama, meno. Anche lei soffriva di depressione e si uccise nel 2007 prima che una malattia fisica a decorso infausto ponesse fine ai suoi giorni. La sua leggendaria collezione di abbigliamento, battuta all’asta, è stata posta in salvo dalla dispersione da Daphne Guinness, esile e ricca icona di cinquanta chili variopinti in stile eclettico che colleziona haute couture, eventi mondani, armatori greci e intellettuali francesi.
Alexander invece, costantemente in uno stato di terrore da passerella, nei labirinti della droga, negli anni più duri dell’Aids dove amore e morte regnavano indiscusse nello stesso letto, riuscì a trasportare sopra un’unica dimensione, la sartorialità e le tecniche di costruzione di un abito apprese in gioventù. La sua incessante necessità di sottrarsi con forza ai canoni della couture lo spinse a creare sfilate più che teatrali. Discariche come scenografie, robot per la verniciatura delle auto, immagini oleografiche e tutto quello che dall’arte come un monito contamina la moda.
Savage beauty, il titolo dell’esposizione nata nel 2011 dal Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York, dove è diventata l’ottava mostra più visitata nella storia del museo con più di mezzo milione di adesioni. Dal 14 marzo 2015 fino al 2 agosto Alexander McQueen torna nuovamente indietro ed è il Victoria & Albert Museum che ospita questa mostra rinvigorita soprattutto per rendere omaggio al periodo inglese. Duecentoquaranta pezzi tra costumi e accessori allestiti da Gainsbury and Whiting, la casa di produzione che da sempre trasforma le sfilate di McQueen in veri e propri spettacoli.
Viaggio nella moda che ripercorre la carriera del pluripremiato stilista, rilevando tutti gli aspetti del suo genio creativo, dalla collezione creata per la tesi di laurea nel 1992 a quella incompiuta del 2010, in un’esposizione opulenta che mette in luce la storia e la creatività di un maestro che ha segnato la storia del costume. Integralista dell’haute couture nel linguaggio, mai nella forma. Onirico, architettonico e fiabesco. In poco meno di due lustri con lui sono nati metodi di taglio innovativi che uniti a riferimenti storici di vasta portata hanno decretato il successo delle sue collezioni.
Una conoscenza di misura tipica della sartoria britannica, l'esecuzione tecnica della couture francese e la finitura impeccabile della produzione italiana, unite a importanti collaborazioni, sigillano un percorso creativo nato per tradire le regole, finito precocemente con un funerale quasi di stato, in una cattedrale trasformata in una sorta di passerella total black, con i soliti volti noti del circo della moda, diversi ma uguali, alcuni truccati da Otto Dix, altri da Boldini. Altri ancora, increduli e nascosti sotto i veli gemevano pettinati dai venti dello stile nella tetra sfilata di stelle piangenti, prigionieri di due cordoni rossi di transenne. Tutti insieme per l’estremo saluto all’ultimo maestro della moda.
Moda solenne, occhiali scuri e lacrime famose. Fracasso di tacchi vertiginosi infranti sul gelido marmo del lutto, per la morte di un’immaginazione troppo viva. La devozione e il cordoglio, l’odore d’incenso, gli altari, coreografia di una sfilata religiosa. Ultimo spettacolo. Alexander McQueen non esisteva più, era un mortale ma restò stretto come una corda tesa alla memoria delle vittime dello stile, lontano dal cappio della moda dell’oblio.