Nero come il fumo di Auschwitz
Emmanuel Bornstein è un giovane pittore, nato a Tolosa nel 1986, cresciuto a Parigi e trasferitosi a Berlino nel 2010. Appartiene a una nuova generazione di artisti, felicemente affrancati da quella relazione critica con la pittura, spesso conflittuale, talvolta anacronistica e raramente significativa, che ha segnato gli ultimi decenni del secolo scorso. Nulla a che fare con gli interrogativi puramente formali sullo statuto estetico, la materia o lo spazio del dipinto. Ed ancora meno a che vedere con l’atteggiamento pretestuosamente passatista di quell’ultima avanguardia retrograda, che un’abilissima operazione di marketing ha reso nota come Transavanguardia. Le sue opere non hanno mai come soggetto la pittura stessa e tantomeno la sua storia. Al contrario, essa è il mezzo diretto, quasi spontaneo, di certo non ingenuo, di un immaginario narrativo, piuttosto che la finalità di una sterile speculazione autoreferenziale. Tutt’al più i suoi quadri si nutrono della lezione e delle icone dei Maestri, ma senza mai diventarne una modesta parafrasi pomposa, senza lasciarsi andare alla ridondanza della glossa o alla pedanteria della citazione. Semplicemente integrandole come le effigie, le maschere o i personaggi di un complesso teatro mentale e figurativo.
Il fatto è che Emmanuel Bornstein ha molto da raccontare. Una storia piena di rumore e di furore, di ombre che camminano, si agitano sul palcoscenico, e che nessuno ascolta più.Una storia che deve la sua trama al ricordo, ai racconti dei ricordi, agli incubi della memoria, alle loro immagini. Con ogni evidenza c’è una drammaturgia nel suo dipingere. Apparati scenografici, luci e costumi, destinati a rendere visibile ciò che non potrebbe essere guardato senza il filtro di una messa in scena. Così, sui fondi delle sue tele, neri come le quinte di un teatro, spessi come le notti di Goya o il fumo dei camini di Auschwitz, si raduna, in una sapiente composizione, una folla di vittime e di boia, di mostri, d’asini, di gerarchi, di lupi, di buffoni e di corpi in caduta libera, vinti dalla forza di gravità della Storia, risucchiati dall’abisso. Disastri della guerra, tragici e grotteschi. Capricci della commedia umana e verità delle sofferenze. Follie del terrore e danza dei morti.
Il suo racconto si sviluppa grazie ad un alfabeto visivo composto essenzialmente da quattro colori e dalle loro declinazioni. Nero, bianco, grigio e giallo. Una scala cromatica tutta cerebrale, dominata dall’oscurità dei cieli, squarciati qua e là da qualche lampo di luce giallastra, livida come i raggi del sole sui campi di concentramento. In essa appaiono le uniformi dei guardiani, di un grigio che si confonde con il pelo degli asini, o sono inghiottite le carni dei deportati, bianche come l’aura dei fantasmi. E il disegno amplifica la tensione drammatica, instaurando nella composizione un rapporto conflittuale tra le figure rappresentate in modo realistico e quelle appena abbozzate con qualche rapida pennellata, come se all’interno del quadro si stesse consumando una lotta tra il ricordo e l’oblio, tra il tentativo di trattenere tutte le immagini e il bisogno di sbarazzarsene, la volontà disperata di dare un nome ad ogni volto e la cancellazione inevitabile delle loro identità. Ne risulta una pittura autenticamente abitata dal pathos, nella quale la tela diventa palcoscenico di una tragedia che mai si trasforma in spettacolo.
Osservando i suoi primi quadri – dipinti da Bornstein poco più che ventenne – il pensiero corre a un’immagine lontana, a quel valzer struggente e magnifico che accompagnava «La classe morta» di Tadeusz Kantor. Più precisamente la scena nella quale una vecchia bidella, passando tra i banchi a passo di danza, falciava gli alunni sorridenti, uno dopo l’altro. Le affinità tra i due universi creativi sono molte e molto strette. Ma il riferimento a questo grande maestro delle scene non deve essere letto come il tentativo di magnificare l’opera di un giovane artista attraverso una nobile genealogia o, peggio ancora, di rinchiuderla in una griglia di lettura. E’ solamente una sensazione che risale alla superficie della memoria grazie all’incontro con quelle immagini così dense di orrore e di bellezza. Un teatro della memoria, delle pitture nere. Delle pitture per non dimenticare, nel nero di un teatro.
Emmanuel Bornstein espone i suoi nuovi dipinti in una mostra personale dal 30 giugno al 12 settembre presso la Galerie Crone di Berlino – Rudy Dutschke Strasse 26.