Non mi inchinerò mai
Nell'ambito dell'interesse di Joyce per il Romanticismo – da lui spesso lodato ma anche criticato, nei suoi eccessi egotistici di sentimentalismo, a favore del classicismo – è significativo ricordare l’ammirazione dello scrittore irlandese per Leopardi e l'influenza che il poeta esercitò sulla formazione di questi, un'influenza solo sporadicamente e fugacemente affrontata dalla critica. Joyce ci fornisce un'acuta e illuminante lettura di Leopardi che si distacca dal cliché imperante e riduttivo del poeta pessimista innanzi all'ineluttabile “natura matrigna”.
Il forte interesse di Joyce per Leopardi era probabilmente dovuto ai molteplici punti di contatto: entrambi risposero radicalmente a crisi storico-sociali; entrambi condussero vite erranti nell'auto-esilio; entrambi affrontarono “coraggiosamente” i problemi della censura. E proprio il coraggio è ciò che Joyce sottolinea: prima di citare Leopardi nel caleidoscopio linguistico di Finnegans Wake, già nel saggio dedicato al poeta irlandese Mangan (1907) Joyce definisce quest'ultimo “più debole di Leopardi” poiché non aveva “il coraggio della sua disperazione”. Come sappiamo dai biografi, infatti, Joyce aveva letto Leopardi già all'Università, e la sua biblioteca triestina avrebbe poi contenuto una copia delle Poesie e una copia, annotata a mano, dei Canti. Si spiega così, inoltre, l'annotazione chiave nei notebook preparatori a Finnegans Wake: “Leopardi changes / not his spots” (“Leopardi non cambia le sue macchie”). Citando Leopardi, la frase riprende la citazione biblica di Geremia (“Cambia forse un Etiope la sua pelle o un leopardo la sua picchiettatura?”) al fine di suggerire la compresenza di fermezza e mutamento: nonostante la società imponga un cambiamento o un assoggettamento, il leopardo, qui simbolo dell'artista identificato con Leopardi, resta immutabile.
Allo stesso tempo, seppur inalterabile come la pelliccia del felino, l'artista è continuamente incline a interne metamorfosi che richiedono forza e fierezza. Le stesse qualità che leggiamo nell'eroica dichiarazione leopardiana: “Non mi inchinerò mai e la mia vita sarà un continuo disprezzo di disprezzi e derisione di derisioni”: una dichiarazione che echeggia il luciferino “non serviam” alla patria e alla religione di Stephen Dedalus in Ritratto dell'artista. L'immagine del leopardo riprende anche la locuzione idiomatica, racchiudendo squisitamente ciò che Joyce intendeva per “poeta”: il leopardo che non cambia le macchie, in inglese, altro non è che il nostro “lupo” che “perde il pelo ma non il vizio”. Il vero poeta, infatti, è soggetto a strenue lotte con se stesso e col mondo circostante, lotte che prevedono un continuo cambiamento e adattamento, i quali però non andranno ad alterare la purezza della sua ispirazione. “Poeti si nasce non si diventa”, scriveva Joyce, “ma la poesia non nasce: diventa”: una frase che non può non far pensare (anche) a Leopardi, un artista che troppo spesso è associato solo alle drammatiche vicende esistenziali e al famoso “pessimismo cosmico”. Egli fu invece un poeta fiero e coraggioso, fu il poeta de La ginestra, un uomo che, consapevole della condizione umana, non si piegò ad essa ma reagì attraverso la meditazione filosofica e la scrittura. Una scrittura modernissima e ribelle, proprio come quella di Joyce.