A pranzo con Orson Welles
Sono passati cent’anni dalla nascita di questo ragazzo prodigio (ma anche prodigo), e trenta dalla sua morte. Orson Welles non aveva ancora vissuto gli anni di Cristo che già in Inghilterra veniva stampata la sua prima biografia. Si intitola proprio così: Orson Welles. A First Biography. Autore un tal R.A. Fowler.
Oggi ecco pubblicato da Adelphi il bellissimo e imperdibile A pranzo con Orson. Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles, a cura di Peter Biskind (traduzione di Mariagrazia Gini). “A me non piacciono i film. Mi piace farli”. Una delle battute più celebri di Orson Welles sembrerebbe un paradosso se si considera che di film, propriamente detti, questo genio all’epoca ne aveva girato uno solo, a 24 anni, nel 1939, e che da quel momento fino alla sua morte i film li ha più che altro raccontati, immaginati, cominciati, interrotti, perduti, ritrovati.
Ma per chi conosce bene la sua storia il paradosso è un altro, e cioè che proprio quella specie di fantasticheria permanente in 35 millimetri, che Welles sottoponeva a chiunque avesse voglia di ascoltarlo, ha finito per diventare, nell'immaginario di tutti, “il cinema”. Per tutti gli altri, che magari di Welles conoscono solo l'immagine, o il frammento di una delle innumerevoli leggende da lui stesso messe in circolo, queste conversazioni settimanali con Harry Jaglom a un tavolo del Ma Maison di Los Angeles costituiscono la migliore introduzione possibile a una biografia per definizione “più grande del vero”, raccontata quasi dalla stessa voce che aveva, tanti anni prima, reso celebre alla radio il suo protagonista. Dove gli episodi verosimilmente fittizi, come l'affair con Norma Jean Baker prima che diventasse Marilyn, le battute probabilmente ritoccate (“Io e lei siamo i due più grandi attori d'America” sostiene Welles gli dicesse Roosevelt a ogni incontro) e i giudizi che invece suonano piuttosto sentiti (“Marlon Brando? Un salsiccione”) sono altrettanti trucchi dell'illusionista Welles per condurre il lettore al centro della più fascinosa macchina da intrattenimento di sempre. E fargliela vedere da vicino, come fosse la prima volta.
Tanta precocità costringe chi si occupa del wonder boy a fare inevitabilmente i conti con se stesso: anagrafe, carriera, bilanci, titoli. Il vecchio metodo filmografico di conteggiare quanti film sono stati fatti da chi e con chi è inadeguato per Orson Welles, il ragazzo che a ventisei anni aveva incarnato tutta la vita d’un personaggio, Charles Foster Kane, dai venti fin verso gli ottanta. L’evidenza dei prodigi di Welles costringe all’invenzione di metodi originali. Uno dei critici, Jean-Pierre Berthomé della rivista francese Positif , parte con il pallottoliere a raccontare i cast europei del dopoguerra: “Quando inizia a girare Otello nel giugno 1949 Welles ha soltanto trentaquattro anni, ventotto dimeno di Anchise Brizzi, il suo direttore della fotografia, nove di meno di Alexandre Trauner, il suo scenografo...”. Fellini aveva fatto un sublime ritratto del gourmand: “Welles era un enorme macchione nero, più largo del tavolo per sei persone a cui sedeva nel ristorante della Cesarina, a Roma. Gli andai incontro come se lo avessi conosciuto da sempre. Con un gesto benedicente, da monarca, m’invitò a sedere. E vidi arrivare quattro primi piatti: minestrone, fettuccine, cannelloni, rigatoni. Se li dispose attorno, come fa un giocatore con le carte. Mangiava lentamente, gustando tutto: un Enrico VIII, un Giove come lo avevo immaginato al ginnasio”. Va notato come in questa passerella di primi, Fellini lasci la chiusura al tipo di pasta che più lo stuzzicava per via di un gioco di parole, a cui dedicherà anni dopo uno spot per un pasticcio di Parma. Perché Fellini era così: un doppio senso lo intrigava più di una pastasciutta.
Nelle trascrizioni di queste chiacchierate fanno invece un teatrale capolino i camerieri, che vengono silenziati o redarguiti, cacciati o cazziati. Henry Jaglom si presenta preparatissimo a questi incontri: la sera prima si vede un film di o con Orson per ricavarne stimoli e domande. Sono invettive, non pettegolezzi, sono la rivendicazione, per sé, di una libertà assoluta di parola e di disastro diplomatico, un lusso che ci si può permettere quando il talento supera qualunque convenienza. “Non ho nemmeno i soldi per fare la spesa al supermercato”, diceva a sessantotto anni Orson Welles, mentre inseguiva i produttori e poi li maltrattava, chiedeva finanziamenti, mandava al diavolo colleghi: pieno di acciacchi, di diete, progetti, incazzature, malinconie, e visioni precise del mondo e della politica, accompagnate dal terrore che i camerieri in cucina gli sputassero nel piatto e che un bacio sulla guancia gli potesse trasmettere l’Aids.
Allora per capire il genio e l’ arte, per chi ama il cinema e non solo, ecco una colossale fantasmagoria di aneddoti, chiacchiere e molto altro. Forse la vita.