Quelle tristi lacrime televisive

Ci sono italiani che non piangono. Che non piangono per tv, intendo. Madri, padri, fratelli, sorelle di persone rapite, la cui vita è a forte rischio, che evitano il più possibile di apparire per televisione, a meno che non lo ritengano utile alla salvezza dei loro cari.

E se questo accade, non lacrimano, non stringono fazzoletti umidi in mano, non urlano, non sventolano tricolori, non si inginocchiano, non singhiozzano tra le braccia di ministri con finta sollecitudine dipinta in viso, non supplicano, alternativamente, la Madonna, padre Pio, il papa, non sperano in interventi miracolosi, ma si augurano razionali azioni politiche o diplomatiche.

E se poi scoprono di essere stati delusi o traditi, continuano a non esibire pathos spettacolare, si indignano. I brevi comunicati che ritengono utile pronunciare in pubblico, li dicono con viso asciutto, comportamento sobrio, voce pacata. Il semplice, dignitoso messaggio che comunicano con questo loro comportamento è questo: il dolore, l’angoscia per la sorte di chi ci è più caro al mondo sono fatti tutti privati; esibirli nell’isterico un-reality show che ci assorda quotidianamente, sarebbe guastarli, corromperli.

Quest’Italia a viso asciutto non piace all’Italia che sui media e con i media fa invece tutto quello che costoro non fanno. Non piace agli avvoltoi della lacrima, sia cartacei sia televisivi. Quelli che ogni giorno devono produrre non-notizie dal grosso titolo stereotipo: «L’angoscia in casa di...», genere letterario in sé, disceso da secoli di pathos cattolico – Stabat Mater dolorosa / Juxta crucem lacrymosa... – e dai pensierini delle elementari.

Persino sui pochissimi giornali di qualità - tre, volendo abbondare – si incontrano frasi come: «Ha detto la signora, con la poca voce che il dolore le consente da giorni». Indispensabile è che i genitori della persona rapita, invece di essere nominati sobriamente come «il padre» e «la madre», subiscano una manipolazione patetica. Se il padre si chiama Giuseppe, sarà «papà Giuseppe» – variante tosco-emiliana: «Babbo Giuseppe» – se la madre si chiama Carla, sarà, «mamma Carla», a volte con la maiuscola, Mamma. E se la nonna si chiama Lucia, inevitabile che sia «nonna Lucia», «alta, solenne, vestita di nero».

Stilema che ci riconduce appunto a un’Italia rurale e piagnona che si situa, idealmente, tra Carducci, il De Amicis di Cuore, e le Veglie di Neri di Renato Fucini. Gli avvoltoi della telecamera, se «Mamma», o «Nonna» Lucia ancora non hanno gli occhi umidi, non esitano di fronte al ricatto più abietto: «Signora, ci mostra la cameretta» – indispensabile il vezzeggiativo in -etta - «di sua figlia?», sperando che alla vista dell’orsacchiotto la vittima erompa in singhiozzi. La camera di un figlio che si sa in pericolo, per un genitore, è il più atroce luogo dell’assenza.

Per fortuna, ci sono italiani che resistono a questa empia lusinga. Un’esortazione: cominciamo a contarci tra di noi che non facciamo spettacolo del nostro dolore, e se piangiamo, piangiamo nel segreto della nostra vita intima.

 

 

17-09-2014 | 14:03